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La Donna che "Amo" è Lilia, mia nonna. Firmato Silvia Garozzo

silvia-garozzo-psicologa ROMA - Cinquew.it ha chiesto alle donne italiane un contributo scritto su una figura femminile apprezzata per le sue gesta, il suo coraggio, la sua cultura. Anche non più tra noi. Di seguito l'intervento di Silvia Garozzo.
La donna che amo si chiama Lilia. Lilia significa giglio, un fiore di una eleganza rara, un fiore delicato. Era la seconda di 3 figli, Lilia. La sorella grande era quella che si dava da fare, saggia, forte, sapeva tutto lei. Il piccolo, il ribelle della famiglia. Lei no. Lei era solo bella e mite. Bella di una bellezza accecante e discreta al tempo stesso. Bella da doversi curare al minimo altrimenti avrebbe davvero sbaragliato e confuso tutti. Bella da vergognarsene lei stessa. E mite. Accettava tutto. Non si arrabbiava Lilia, non si sarebbe arrabbiata mai. Lei doveva sopportare ed essere sempre e comunque a modo. Dolce e piena d’amore.
Erano una famiglia povera. Visse la guerra, la mancanza di cibo, la paura costante. Lei era una ragazzina. E se l’uomo si adatta a tutto, i ragazzini ancor di più con la loro incoscienza. Mentre scorrazzavano felici per il quartiere cercando qualcosa da mangiare, lei lo vide. Era il figlio del suo dirimpettaio. Molto più grande di sé. Un uomo elegante, distinto, con il mento all’insù, le spalle larghe. Camminava con quel piglio che a lei mancava. Forse per questo se ne innamorò all’istante. Cercava quel che mancava a lei.
Innamorarsi di lei invece era proprio facile, bella e mite com’era. Finirono a letto, lei diciassettenne. Si sposarono in sordina, lei obbediva già. Era una ragazza. Non capiva che stava per chiudersi in galera, una galera dorata certo, piena di tulle e argenteria da lucidare, piena di servitù da gestire e di ricevimenti. Una galera però, per sé e per la bimba che già portava dentro. Di bimba poi ne arrivò un'altra e Lilia intanto si rendeva conto. Non poteva uscire. Non poteva guardare. Non poteva. La gelosia di lui era terribile. Lui che era già stato sposato. Lui che aveva avuto anche un’amante. Era un partigiano, lui. Un personaggio importante.
Per anni andarono avanti così, mesi di tormento e poi le fughe dalla madre. Poi i rientri forzati. Lilia non aveva nulla, a casa della madre non c’era abbastanza cibo per tutti. E poi di nuovo il tormento e così via. Poi lui morì. Le figlie diventate grandi si sposarono. Lei curava tutti e tutto. Lei ospitava tutti. Sempre dolce, sempre gentile. Generosa con tutti gli averi che ormai erano suoi. Si occupò tanto anche dell’unica nipote. La amava come un’altra figlia. Era sempre dolce ed affettuosa. Come con tutti se ne prendeva una cura perfetta.
Trovò un altro uomo che sposò. Morì anche lui. Lei si era curata anche di quest’uomo. Anche questa volta aveva accettato tutto. Aveva sorriso, aveva preparato pranzi, cene, riparato calzoni, ingoiato rabbia e messi su dei gran sorrisi. Sofferto delle scelte di lui. Sofferto dei rimbrotti dei generi ai quali non rispondeva mai. Nessuno lì a proteggere quella donna che non sapeva proteggere se non gli altri. Ma di una generosità e di una dolcezza rara come rara era la sua bellezza. Aveva visto il mondo cambiare. Invenzioni difficili da accettare e capire per una donna che rimaneva attaccata a quelle corse da bambini per il quartiere.
Lilia adesso ha l’alzheimer. Non c’è più. C’è un corpo che non le rende giustizia, lei che era sempre stata bella e curata. Ora il suo corpo vecchio è lì su quella sedia a rotelle tutto il giorno, con quell’odore rancido. Lei lì dentro sembra non esserci più. Non esce più fuori ormai da anni. E’ iniziata con delle dimenticanze. Si accorgeva allora Lilia che la sua testa faceva cilecca. Quanto deve esser stato spaventoso quel baratro. La consapevolezza di starsi avvicinando sempre di più all’oblio totale. Quanto deve essere stato un sollievo quell’oblio. Lo specchio si vedeva negli altri. Lo specchio di quelle emozioni negli altri attorno a lei. La rabbia di chi voleva smuoverla, non volendo credere all’ineluttabilità, credendo più volentieri ad una sua svogliatezza. Il dolore dell’accettazione, la paura del peggioramento poi. Il lutto protratto e lento per anni anziché vissuto tutto insieme. Uno stillicidio per lei e per gli altri. Poi l’oblio, l’accettazione, la routine.
È lei, è lì, ancor più docile che in vita. Perché è una morte anche questa. Che lascia un dolore all’ultimo. Un dolore ed una liberazione come solo alcune morti sanno fare. Lei è lì ancor più docile ancor più mite. Quando si va da lei a volte lei ti vede. Non sa chi sei. Sa forse che sei di famiglia. Dice delle cose incompresibili. Non si sa se siano incomprensibili solo per noi o anche per lei. Sembra serena, però, ora. E di una magra consolazione ci si nutre. Si nutre quella parte lì dolorante, da una parte nascosta del cuore. Una parte che non esce mai. Ci si dimentica che esiste per non sentirla. Ma è lì. E quando si va da lei si tocca. Fa male. Ma chiusa quella porta la si rimette lì, nascosta.
Si raccontano tante storie di donne importanti, che hanno lasciato documenti, opere d’arte, leggi e quant’altro.
Lilia no, non era una donna importante. Era una donna qualunque. Umile, bella con tante storie da raccontare. Le avrebbe raccontate anche ai suoi bisnipoti se questa bastarda malattia non glielo avesse impedito. Noi non riusciremo mai a raccontarle tutte le sue storie. Ma qualcuna sì. La sua in piccola parte sì.
Ti voglio bene nonna. Grazie.


Psicologia Roma
Data:  29/1/2012   |    © RIPRODUZIONE RISERVATA            STAMPA QUESTO ARTICOLO            INVIA QUESTO ARTICOLO


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