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La Donna che "Amo" è mia Madre. Firmato Pia Di Marco

pia-di-marco ROMA - Cinquew.it ha chiesto alle donne italiane un contributo scritto su una figura femminile apprezzata per le sue gesta, il suo coraggio, la sua cultura. Anche non più tra noi. Di seguito l'intervento di Pia Di Marco.
La donna che ho amato, mia madre. Il ritratto che ho fatto di lei è in trasparenza. Il riflesso della sensibilità di una bambina.
Mia Madre.
Mi sono svegliata e non sono più la stessa. Sono quel che avrei sempre voluto essere: una statuetta di bronzo posta su una mensola dell’ingresso di casa, vicino alla porta, custode indifferente di spazi fluttuanti, dai confini incerti, densi di sogni e di ombre. Alta non più di dieci centimetri, vuota all’interno, poggiata su una base anch'essa di bronzo, raffigura un vecchio orientale - un mandarino si direbbe, dal codino sulla nuca calva. Ha gli occhi come due fessure in contemplazione del nulla, le labbra serrate, distese in un ineffabile sorriso, le orecchie dai lobi lunghissimi, la grossa testa quasi indistinta dal corpo. In questa mia nuova forma posso controllare tutto quel che succede in casa. “Buonasera signora - gli ospiti diranno a mia madre - dov’è la sua bambina?”. Non c’è, risponderà lei, non la trovo più da tanto, devo averla smarrita.
E invece… sarò lì, a un metro da lei, e la vedrò muoversi leggera e ne sentirò la voce, la risata intrisa di segreta malinconia, come il richiamo della rondine nel volo serale. Ascolterò i suoi passi lungo il corridoio, il suono dei tacchi delle sue piccole scarpe, il passo greve degli zii e degli amici, il frusciare dei soprabiti deposti sulle sedie. Fra baci, abbracci e complimenti, tutti percorreranno il corridoio e spariranno alla mia vista: le mie lunghe fessure non vedranno più nient'altro. Ma quando gli ospiti compariranno di nuovo per uscire, io sarò qui pronta: niente mi sfuggirà e io sfuggirò a tutti: questo mi riempie di allegra malizia. Mia madre crede che io abbia paura della statuina orientale che lei definisce con un nome insolito, quasi un grido soffocato, “mamao”: ha bisogno di dare una forma alla mia paura divorante, che mi pietrifica, che mi costringe a non separarmi da lei neppure per un momento. Ora, sono io “mamao” e non ho più paura di niente.
Però, se un’altra bambina passerà di qui avrà paura di me? Allora cambierò di nuovo.

Ora sono la pianta di cui mia madre è fiera, quella che ha radici aeree e foglie bucherellate più grandi della sua mano. Ecco, ho appena compiuto il prodigio di una foglia nuova, pallidissima: timidamente la schiudo, giorno dopo giorno, fino a mostrare il mio capolavoro, una piccola foglia con gli occhi vuoti come le maschere di carnevale. Appena la vedrà, mamma dirà: “la mia pianta ha fatto una bambina”, e la bambina sarà la mia foglia nuova.
E’ bello essere bambini così, come lo è ogni piccola foglia di questa strana pianta che mi ha dato la forma, identici alla foglia grande e ad essa uniti per sempre lungo il fusto. Però io non mi accontento, ormai passo le giornate inseguendo lo sguardo di mia madre ovunque questo si posi, e la forma della pianta con le foglie dalle orbite vuote non mi basta più. Osservo il geranio che lei coltiva sul balcone nelle lunghe giornate primaverili: armata di paletta e forbici ne spezza i rametti e li pianta in altri vasi. Ora sono tutti i gerani che lei ha invasato e spero di crescere nell’unico modo che mi è consentito, identica al Primo Geranio. Infatti, non sopporto di esistere, posso sentirmi solo la forma dei miei genitori. Noi tre siamo loro due: e mentre agito nell’aria gli stessi petali del Primo Geranio, mi chiedo in quale cerchio del travaglio materno io sia rimasta intrappolata, figlia mai nata da un fiore che può solo duplicarsi.

Ora sono una matita, e una casa che io stessa ho disegnata tra le venature del marmo rosato della cucina. Disegnare casette è un segreto: mormoro suoni incomprensibili a me stessa mentre insinuo la punta della matita in quel paesaggio fatto di nulla, di aloni che si stringono attorno a un cerchio di più intenso colore o deviano per cercare altri nuclei da avvolgere. Quei segni - le venature - non si possono cancellare, modificare, fare più lunghi: si possono solo abitare, e io li abito già. Ora sono le venature di marmo e inizia per me una danza vorticosa: mi arricciolo, mi distendo, corro a perdifiato incontro a più complesse venature come a onde del mare in tempesta, cado dentro macchie rosate o marroncine, emergo, cado di nuovo. In questo caos le forme cedono alle linee, ai vortici, e lo splendore del marmo vale come il nero profondo dello spazio. Ora sono il marmo in quelle parti dove non c'è una venatura che s’addentri - materia inerte, che ingoia ogni gioco della fantasia. Anche il vuoto ha una sua consistenza, è come una densa assenza di segnali: questa è la mia ultima forma.
Data:  19/12/2012   |    © RIPRODUZIONE RISERVATA            STAMPA QUESTO ARTICOLO            INVIA QUESTO ARTICOLO


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