ROMA - Cinquew.it ha chiesto alle donne italiane un contributo scritto su una figura femminile apprezzata per le sue gesta, il suo coraggio, la sua cultura. Anche non più tra noi. Di seguito l'intervento di Federica Bertocco.
Le Muse o i ciceroni dei giorni nostri sono eroi, premi Nobel, salvatori della Patria. Nessuno mai riflette su quanto, nella vita, sia più facile lottare, vincere alla conquista di meriti ed onorificenze, rispetto al competere contro sé stessi e vincere comunque. Per queste persone premi non esistono, ma loro penso siano più eroi di coloro che hanno percorso un sentiero già spianato.
“L’anoressia non è come un raffreddore. Non passa così, da sola. Ma non è nemmeno una battaglia che si vince. L’anoressia è un sintomo. Che porta allo scoperto quello che fa male dentro. La paura, il vuoto, l’abbandono, la violenza, la collera. E’ un modo per proteggersi da tutto ciò che sfugge al controllo. Anche se a forza di proteggersi si rischia di morire. Io non sono morta. Oggi ho quarant’anni e tutto va bene. Perché sto bene. Cioè…sto male, ma male come chiunque altro. Ed è anche attraverso la mia anoressia che ho imparato a vivere. Anche se le ferite non si rimarginano completamente”.
Lei è una semplice, una quarantenne, un’umile donna romana del 1970 che della sua vita ne ha saputo fare un punto di forza. Un’affermata filosofa e scrittrice, un’autorità negli ambienti della società culturale parigina. Sì, Parigi. Roma non le bastava, voleva di più, voleva tutto dalla sua vita. Dalla laurea ad un dottorato di ricerca all’Università Normale di Pisa, fino alla nomina a professore ordinario all’Universitè Descartes de Paris.
“Pensavo che non ne avrei mai parlato, ma col passare degli anni parlarne è diventata una necessità. Per mostrare chi sono e cosa penso. Perché, forse, senza quella sofferenza non sarei diventata la persona che sono oggi. Probabilmente non avrei capito che la filosofia è soprattutto un modo per raccontare la finitezza e la gioia. Gli ossimori e le contraddizioni. Il coraggio immenso che ci vuole per smetterla di soffrire e la fragilità dell’amore che dà senso alla vita”.
La sua vita si svolgeva all’insegna del dovere. Un “diktat”, tuttavia, che l’ha portata negli anni a fare sempre di più, sempre meglio, cercando di controllare tutto. Una volontà ferrea, ma una costante violenza sul suo corpo. Finché, un giorno, alla tenera età di poco più di vent’anni, le viene detto da uno psichiatra: “Lei è anoressica”. Ed è qui il nucleo del tutto. Ma non sarà un po’ troppo violenta l’etichetta imposta all’anoressia? Una forte pressione sulle labbra che non permette facilmente di parlarne, che non concede di identificare ed identificarsi con la propria sofferenza. Si ha paura dei pregiudizi, è un’espressione talmente odiosa.
Che importanza hanno queste persone per il mondo? Senza dubbio l’attenzione è alta, ma il fattore psicologico supera la vetta. La sua non è una battaglia, la sua è una passeggiata nel proprio Io alla ricerca della sé perduta, che ha bisogno di riemergere per non far affondare la nave.
“Chissà! Forse si sono tutti passati la parola. Come se il problema delle anoressiche fosse sempre lo stesso: utilizzare il cibo come un diversivo, per non darsi la possibilità di ‘scegliere’, per evitare di costruire il rapporto con l’altro nell’ambito di un’organizzazione più realistica e costruttiva della propria identità, come si legge in uno dei tanti libri dedicati alla questione. Intendiamoci bene. Non sto dicendo che sia falso. Ma detto così, non vuol dire nulla. Chi è veramente capace di costruire un rapporto con gli altri a partire da una concezione costruttiva della propria identità? Che cosa significa che la si deve organizzare in modo costruttivo? Mangiare tutto, subito, sbriciolando il presente. Vomitare tutto, subito, annullando il passato. Non più controllo, ma paralisi. Il fascino discreto della morte. Del nulla…Per punirsi di qualcosa. Vendicarsi. Ingoiare le proprie incertezze. Vomitare rabbia a fiotti. Finché il corpo, esausto, non ne può più. E ogni volta che finisce tutto, ritrovarsi in frantumi… Altro che identità!”.
Allora capite, ora, che lotta una donna del genere affronta per ringraziare Dio e per non farlo pentire ogni giorno della sua esistenza per averla messa al mondo.
La vita è un dono e noi non siamo dei santi, questo è vero. Ma se non partiamo da un’esperienza del genere ad apprezzare il piccolo che ci è stato messo a disposizione, nelle nostre mani, come possiamo mai capire fino in fondo poi i sacrifici di coloro che arrivano alla notorietà. E’ ammirazione quella che noi esterniamo, ma non comprensione. Io ammiro questa donna, ammiro il suo coraggio, la sua forza, la sua intelligenza, la sua perseveranza ed onestà. E l’ho capita. Lei è Michela Marzano e, per me, la sua vita vale più di un Premio Nobel.
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