ROMA - Cinquew.it ha chiesto alle donne italiane un contributo scritto su una figura femminile apprezzata per le sue gesta, il suo coraggio, la sua cultura. Anche non più tra noi. Di seguito l'intervento di Sara Cordone.
Maria Cumani: candida creatura e artista senza tempo. “Quando leggo il diario di Katherine mi sembra improbabile che io debba rimanere senza voce e un giorno essere veramente morta per sempre”.
Esordiva così, riferendosi alla Mansfield in una delle sue più intense pagine di diario, Maria Cumani, scrittrice, poetessa, attrice, coreografa, danzatrice dalla sensibilità e dal talento straordinari.
Alcuni dei suoi innumerevoli scritti sono raccolti nel libro “Il fuoco tra le dita”, pubblicato recentemente dalle Edizioni Abramo per la Collana “Le Onde” e curato dal figlio Alessandro Quasimodo in collaborazione con Mariacristina Pianta.
Il grande filosofo dell’ermeneutica Hans Gadamer sosteneva che ogni messaggio si fa portatore di una pluralità di significati e che ognuno di essi può trascendere il proprio tempo, facendosi contemporaneo di ogni presente. E’ ciò che è avvenuto con gli scritti della Cumani, nei quali si fondono armonicamente e sinergicamente freschezza, immediatezza e valore poetico.
L’attualità delle tematiche che hanno ispirato la sua opera prorompe da ogni pagina, proprio in un’epoca come la nostra, in cui, nel turbinio della quotidianità che ci travolge, è ancora possibile riscoprire l’universalità di sentimenti e di valori come l’amore, la solitudine, il “male di vivere”, l’arte nella molteplicità dei suoi aspetti.
Le parole della Cumani, forgiate da un’anima eternamente fanciulla, sono capaci di scuotere le coscienze, di essere accolte senza venire dimenticate, di infrangersi con delicatezza e vigore nell’intimità più indifesa, spogliando il cuore dalle rigide barriere che la nostra fragilità di uomini spesso erige e rivestendolo di autentica genuinità.
Tutto ciò è possibile perché in Maria Cumani si esprime, nella sua più piena vitalità, l’inscindibile binomio arte-vita e se dalla sua opera artistica emerge con fulgida chiarezza il profilo umano di una donna fragile e forte, è altrettanto vero che fu proprio la luce dell’arte a guidarla nel suo eccezionale percorso di vita.
Fu Milano la città dove nacque il 20 maggio del 1908, da una famiglia della buona borghesia e di stampo piuttosto tradizionalista.
Giovanissima, Maria era già destinata, fin dai suoi primissimi studi, ad essere “impregnata” di arte, di poesia, di danza.
Pubblicò alcune raccolte poetiche, tra cui “Improvviso un vento”, “L’arte del silenzio”, “O forse tutto non è stato”, dove ad una cultura raffinata si uniscono una spontanea musicalità del verso ed una sensibilità acuta e profonda.
Della Cumani, scrissero alcuni tra gli autori più importanti del panorama letterario, da Alfonso Gatto a Vittorio Sereni; con lei, intrattennero uno stimolante dialogo epistolare i più alti rappresentanti della pittura del primo Novecento, da Giorgio Morandi, a Gianfilippo Usellini, ad Alberto Savinio, ad Aligi Sassu.
Registi del calibro di Rossellini, Fellini, Risi, dei fratelli Taviani la diressero magistralmente sul set di numerose pellicole cinematografiche e intanto Maria continuava a scrivere senza smettere mai di danzare, anche sfidando l’inarrestabile fuga del tempo.
Nel 1986, a 78 anni, la Cumani danzò nella “Fedora” di Umberto Giordano, diretta da Gian Carlo Cobelli al Teatro Filarmonico di Verona; la sua danza era sempre la stessa: inossidabile, elegante, armoniosa, piena di grazia.
Allieva della Ruskaja e insegnante amatissima e apprezzatissima, basta guardarla in alcune immagini, o incantarsi ancora oggi di fronte agli scatti che ne fissarono alcuni momenti di vita, per rendersi conto che la Cumani era nata per danzare.Le linee perfette della sua figura esile e slanciata le furono forse donate per ispirare le parole del poeta che ella amò per tutta la vita, Salvatore Quasimodo.
In una delle sue famose liriche a lei dedicate, “Elegos per la danzatrice Cumani”, scriveva: “In questo silenzio che rapido consuma / non mi travolgere effimero, / non lasciarmi solo alla luce; / ora che in me a mite fuoco, / nasci Anadiomene.”
L’incontro tra la Cumani e Quasimodo era avvenuto qualche tempo prima che prendessero vita questi versi struggenti; era la sera del 28 maggio 1936 e Maria si trovava nella casa del suo professore di storia dell’arte, Raffaello Giolli.
Quando vide per la prima volta Quasimodo, la colpì l’atteggiamento distaccato col quale egli parlava, insieme ad alcuni amici, della sua non proprio consueta situazione familiare; questo incontro segnò una svolta decisiva nella vita del poeta e della danzatrice, rappresentò la naturale ed inevitabile attrazione tra due fortissime personalità artistiche, capaci di influenzarsi in modo proficuo e stimolante.
Quasimodo sottoponeva al giudizio dell’amica le traduzioni che stava compiendo di alcuni poeti greci, consuetudine che continuerà anche dopo la nascita del loro figlio Alessandro e del loro matrimonio, avvenuto nel 1948.
A proposito di quella lontana sera di maggio, la Cumani scriveva nel suo diario: “Il cuore voleva amare e i sensi avrebbero voluto essere travolti… già la prima sera Quasimodo divenne per me quasi un’ossessione: dovevo pensare a lui, non potevo più liberarmene”.
E’ con questa giovane e bellissima donna che il poeta scoprì una dimensione dell’amore per lui nuova e sconosciuta; di fronte a lei, le molte figure femminili che avevano sovraffollato e che sempre continueranno ad attraversare la sua vita erano destinate a diventare “ombre”.
Anche le “ombre”, tuttavia, potevano essere ingombranti e infliggere cicatrici profonde nell’ animo di Maria, che dopo molti anni scriverà riguardo al suo amato: “So che non mi reggerebbe il cuore, se vi parlassi ad alta voce di Salvatore Quasimodo, mio marito.E inoltre non posso, non voglio e non devo tentare di definire un uomo come lui che sfugge a qualsiasi schema”.
Sarebbe un imperdonabile errore pensare alla Cumani come ad una donna in balia di un amore infelice, subito passivamente ed inconsapevolmente, perché il suo sentimento fu vissuto con passione, coerenza, fedeltà; fu una scelta senza compromessi, fatta con coraggio anche quando le nubi più oscure sembravano minacciare un legame tanto profondo.
La forza e l’unicità di questo amore consistono nel fatto che la Cumani accettò Quasimodo per ciò che egli era: un uomo dagli enormi contrasti, capace di accarezzare il cuore o di lacerarlo senza alcuna pietà.
Tuttavia, quando il grigiore della quotidianità più deludente diveniva troppo pesante ed insopportabile, una sola era l’isola a cui il poeta faceva ritorno, certo di trovare comprensione e accoglienza tra le braccia della sua Musa, per la quale, nella lirica “L’alto veliero”, cantava: ”E dissi all’amata che in sé agitava un mio figlio, / e aveva continuo per esso il mare nell’anima: / Io sono stanco di tutte quest’ali che battono”.
Musa ispiratrice, dunque, Maria Cumani, ma ella stessa creatrice di liriche che nulla hanno da invidiare, per raffinatezza e valenza poetica, a quelle dell’amato; la sua poesia scaturiva, quasi per incanto, da un’ ”anima bella”, capace di riecheggiare quell’ideale definito dai Greci antichi “kalòs kai agathòs”, un’intima comunione di bello e di buono, che assurge a valore etico prima ancora di essere un valore estetico.
Un’anima, quella di Maria, mai vinta di fronte alle asprezze della vita, neanche quando la solitudine sembrava attanagliarla in una morsa senza speranza: ”Vedo il cielo, vedo il mare… gli occhi vedono la bellezza ma il cuore non più”.
Di fronte a ciò che pare perduto per sempre, è possibile trovare la salvezza nell’amore per il proprio uomo, seppure fonte di inesauribile dolore, nella tenerezza per il proprio amatissimo figlio Alessandro, nella danza e nella poesia: ”Non c’è che la poesia e la danza che possano salvarmi, il mio bambino anche e l’amato”.
E proprio al suo bambino, la Cumani, madre attenta e presente nonostante il suo indelebile ed instancabile impegno nell’arte, dedicò alcune tra le pagine più delicate e commuoventi del proprio “diario dell’anima”; lo osservava nel suo giocare inquieto e questo suo carattere, che sembrava già definito, le faceva ipotizzare che una volta uomo suo figlio non avrebbe conosciuto “la quiete se non a durissimo prezzo”, per aggiungere subito: “Del resto un simile bambino è nato a me perché anche per noi la vita è questo”.
E’ l’inquietudine degli artisti di cui Maria avvertì spesso il peso e lo stimolo, che per lei rappresentarono l’essenza stessa del vivere, in quella che si potrebbe definire quasi un’estetica dell’esistenza, riconducibile idealmente a ciò che ci ricorda anche Friedrich Nietzsche: “Diventa quello che sei” e se la vita non sempre è facile, sta a te cercare di migliorarla.
Migliorare la vita per se stessi e per gli altri fu ciò in cui la Cumani non smise mai di credere; lo testimoniano le sue scelte, il suo inesausto prodigarsi perché la non violenza e la giustizia fossero la nuova linfa per costruire un futuro senza guerre, dove la pace diventasse un valore imprescindibile e condiviso da ogni uomo.
Lo spirito battagliero di questa donna emerge dalla sua volontà di unirsi alla lotta partigiana, come aveva fatto il fratello Sergio; rinunciò solo per amore del marito, di cui era costante sostegno, e del figlio, ancora piccolissimo.
Nonostante ciò, non si stancò di propugnare con energia le proprie idee ed in una pagina di diario del 31 agosto 1944, che a dispetto della data sembra scritta questa mattina, la Cumani si interrogava: “Perché la vita si è allontanata tanto dalla vita? E la guerra? Perché ancora si combatte? Ed io perché ne soffro l’orrore e non partecipo… sono spettatrice, per ora almeno… mi preparo a danzare, mi preparo a dire”.
Queste parole riflettono l’ardore di una donna che partecipò attivamente, offrendo il proprio contributo, ai tragici eventi del secondo conflitto bellico; il suo amore per la danza rappresentò sotto molti aspetti una via per cercare un’alternativa agli orrori della guerra, alle atrocità subite da tante, troppe vittime innocenti.
Con un proprio discorso, Maria aprì il Congresso delle Donne italiane, patrocinato dal Comitato Provinciale dei Partigiani della Pace e mai smise di credere che proprio la pace dovesse essere, per ciascuno di noi, il compito più urgente.
Molte furono le lettere d’amore che Quasimodo scrisse all’amata; in una di esse possiamo leggere: ”Mia Pucci, lo sai, ti amo. Fuori non ci sono che ombre, e cadono. La vita è con te, anche se talvolta la tristezza ci vince”.
Di questa tristezza, la Cumani fu sempre consapevole; una consapevolezza che solo gli spiriti illuminati e le menti lucide come la sua possiedono.La consapevolezza che “Il male di vivere” è condizione stessa del nostro essere uomini; la consapevolezza che nella vita scegliere la via meno facile ed essere coerenti coi propri principi e con i propri sentimenti porta spesso a provare un angosciante senso di solitudine, di abbandono, di delusione, di amarezza.
Il percorso umano e artistico della Cumani testimonia che le “ombre” di cui Quasimodo parlava si sono ormai dissolte e al loro posto continua a vivere una donna capace di intuizioni modernissime nel campo della danza e dell’impegno sociale, tanto da farle affermare di essere vissuta almeno trenta anni prima rispetto al tempo in cui avrebbe dovuto nascere .
Dove quelle “ ombre” sono cadute, resta una donna che ha infranto le ipocrite, stantie convenzioni borghesi e canta invincibile la sua solitudine amorosa, che ha saputo farsi pura poesia senza tempo.
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