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Utopia. Ma noi avvezzi al male, alla rassegnazione, alla degenerazione politica

rocco-alessia-rm ROMA - Utopia. Riflettevo sul concetto di utopia, parola di derivazione greca coniata da Thomas Moore nel suo scritto “Utopia”, appunto. Che cos’è un’utopia? Un “non luogo” come vorrebbe una delle etimologie elleniche “ou-topos”, “luogo che non c’è”, oppure un eu-tópos “luogo felice” come addurrebbe l’altra? Già semanticamente esiste un’ambivalenza che dà vita ad un concetto doppio quale è quello del “luogo felice e inesistente”, un posto dove tutte le ambizioni positive e alte degli uomini si realizzano ma che non esiste fisicamente. Il concetto di utopia permea la filosofia di numerosi pensatori dall’antica Grecia alle età dei lumi e oltre, legandosi soprattutto alla visione religiosa del mondo circostante. Ma è poi sul concetto di società che si avvita il ragionamento dei filosofi, e in particolar modo sulla politica che è gestione della società da parte dei cittadini. Uno dei primi a ragionarvi è Platone che nella “Repubblica” delinea uno stato ideale, governato secondo i principi della sapienza filosofica, nel quale ognuno realizza le proprie inclinazioni naturali. Lo stato ideale platonico è retto dai filosofi, unici detentori della conoscenza del bene, i quali sono in grado, quindi, di indicarlo agli altri per indurli a praticarlo. Nello stato ideale platonico, non vi è differenza tra uomini e donne, se non quella meramente fisica, per cui non esistono mansioni interdette al sesso femminile. La Repubblica di Platone ci parla di uno stato in cui la pena ha una funzione educativa, la legge deve mostrarsi come buona e necessaria e convincere il reo a liberarsi dell’ingiustizia e ad amare la giustizia. Insomma, al di là delle possibili critiche che hanno poi, nel corso dei secoli, investito il pensiero platonico, (ispiratore di numerose ideologie politiche, che vi hanno visto, a seconda dei casi e delle esigenze, un modello al quale, almeno in parte, conformarsi) e delle obiezioni, più o meno pretestuose che alcuni hanno mosso nei confronti del platonismo (non abbatte la rigida divisione gerarchica in classi sociali ben definite, considera la aristocrazia la sola detentrice possibile del potere politico, anche se, è doveroso ricordarlo, l’aristocrazia al quale il filosofo si riferisce, non è quella di nascita, bensì quella puramente intellettuale), Platone resta un modello “ideale” al quale tendere, oggi più che mai, nella costruzione di quel “luogo felice” che uno stato dovrebbe essere. Platone è teso alla realizzazione di una società che punti sull’eccellenza intellettuale, una aristocrazia dei “migliori”, dei “ sapienti”. Potrebbe sembrare assai ingenuo oggi credere che l’utopia platonica goda di qualche speranza di concretizzazione considerando che la corruzione ha raggiunto il centro nervoso del paese, ammorbandolo ed espandendosi come una malattia incurabile. Abbiamo raggiunto il punto di non ritorno? Forse sì, o forse siamo così avvezzi al male, alla rassegnazione, così prostrati dalla degenerazione politica, culturale e sociale dei nostri tempi, che nemmeno ci sforziamo più di pensare al cambiamento, perché sembra una via impraticabile, impossibile, un’attività puerile. Ci rifletto spesso e quel disincanto amaro e doloroso angustia anche me, ma non irrimediabilmente, forse solo perché voglio credere nel miglioramento, come chi si ostina a scrutare i cieli in attesa di un disco volante. Quell’utopia è ancora il bene verso cui tendere, l’energia positiva che corrobora l’ottimismo di chi mette al centro del proprio agire la “polis”, considerando il popolo l’unico destinatario dell’ agire politico, che deve essere pertinente e saggio. Nell’utopia è giustamente radicato il senso di insoddisfazione e frustrazione nei confronti della contemporaneità: accade oggi, accadeva ai tempi di Platone e di Moore. Ma è proprio da questo senso di insofferenza che scaturisce la necessità del cambiamento. Quindi, per dirla alla maniera di Bloch, filosofo tedesco, classe 1885, all’utopia non appartiene un principio “utopistico”, inteso nell’accezione negativa della totale irrealizzabilità, bensì un contenuto “utopico”, positivo: un sentiero che percorso giungerà fino ad un obiettivo arduo ma conseguibile. E proprio Bloch, accosta al concetto di utopia quello di speranza sulla quale impernia la propria filosofia. L‘impulso alla speranza allarga l’orizzonte dell’essere umano, che nell’esigenza di modificare se stesso e il mondo circostante, lo fa nell’ambito dell’utopia, cioè della progettualità nobile e futura. Quindi, seguendo il filo di tale ragionamento, si arriva alla conclusione che probabilmente l’utopia è il vero orizzonte dell’agire politico, di quelle democrazie che vogliono tendere al cambiamento e alla trasparenza. Cosa ci resta oggi? Continuare a scrutare quel cielo fiduciosi nell’attesa del bene, certo, ma anche spendere un poco delle nostre forze, ideologiche, intellettuali, perché i costruttori di quel mondo possibile siamo evidentemente noi, attraverso la rappresentanza politica, ma anche contribuendo a migliorare la società civile fornendo validi modelli comportamentali ai nostri figli, convogliando il sapere, allontanandoci dall’ovvio e chiedendo alle istituzioni a gran voce cultura, storia, grandi riforme sociali. Cammino impervio, certamente utopico, mai utopistico.

di Alessia Rocco
Data:  14/11/2013   |    © RIPRODUZIONE RISERVATA            STAMPA QUESTO ARTICOLO            INVIA QUESTO ARTICOLO


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