NAPOLI - Teatro e Spazio. La parola “teatro” fu usata dai greci per designare la gradinata dalla quale si poteva contemplare la rappresentazione drammatica, e fu poi estesa a designare tutto l’edificio destinato alla rappresentazione. Col tempo significò l’opera, letteraria o musicale da rappresentarvi, e infine tale termine indicò qualunque forma di spettacolo da guardare. “Il Teatro in senso lato potrebbe definirsi: la comunione d’un pubblico con uno spettacolo vivente”. In base a questa premessa, mi preme ricordare che quando si parla di spazio del teatro, ossia di “spazio teatrale” si intendono tre cose differenti: spazio teatrale inteso come “supporto visivo di un testo” ossia ciò che Fabrizio Cruciani denomina come la “proiezione fisica e/o figurativa, materiale e/o illusionista, dello spazio in cui si colloca la finzione dell’azione drammatica, il luogo concreto e metaforico dei personaggi”. Parliamo, dunque di ciò che i francesi chiamano dècor, della scenografia; lo spazio teatrale inteso come luogo delle rappresentazioni, propriamente come “spazio degli attori”, dai quali gli spettatori sono di norma esclusi, ossia il cosiddetto palcoscenico (l’aire du jeu); lo spazio teatrale inteso come “spazio destinato agli spettacoli, insieme di sala e scena”. Il Novecento ha utilizzato lo spazio teatrale come volume-ambiente intendendolo come luogo di relazione fra attori e spettatori. Lo stesso Peter Brook parla chiaramente in proposito: “Il teatro a mio avviso si fonda su una peculiare caratteristica umana, e cioè sul bisogno che talvolta gli uomini sentono di stabilire un nuovo e intimo rapporto con i propri simili”.
Sebbene sia della nostra epoca l’idea di concepire gli spettacoli fuori dagli edifici teatrali, il teatro è sempre stato fatto anche al di fuori dai luoghi deputati ad esso. Si deve prendere atto che sono in numero molto limitati quelli pertinenti all’edificio teatrale come luogo attrezzato e progettato in modo specifico per gli spettacoli; troviamo invece teatro nelle fiere, nei mercati, nelle aie, negli spazi di raduno di una comunità; nei luoghi di culto, nelle chiese, e sui sagrati; nelle piazze, nelle strade, nei cortili, in villa”. Si pensi al Rinascimento, alle origini della Commedia dell’arte, dove le compagnie itineranti vivevano vendendo intrattenimenti ovunque potessero, in luoghi pubblici o privati, “tiravan su in piazza palchi improvvisati”.
È merito di una rivoluzione contemporanea aver posto il problema dello spazio teatrale come problema unitario, “rifiutando le tradizionali divisioni di competenze fra scena e sala, e cioè sostanzialmente, fra scenografo e architetto” si è rifiutata l’idea che lo spazio sia un dato a priori, immodificabile, della messa in scena, la dimensione scenica-architettonica di uno spettacolo è invece qualcosa che fa parte del processo creativo di in dato spettacolo, e dunque va reinventato e progettato.
Del resto già Appia alla fine dell’Ottocento spiega che nel tipo di teatro che ha in mente “non vi sarà di stabile altro che la sala destinata al pubblico, e dietro la sala si allargherà un ampio spazio vuoto” da riempirsi ogni volta con una scena “provvisoria”.
Ma lo stesso Brecht, trent’anni dopo dichiara di essere un “costruttore di scene” proprio perché “la scena è interamente da rifare per ogni lavoro e in ogni caso si rende necessaria una ristrutturazione in profondità”.
Il nuovo teatro contemporaneo, da Mejerchorl’d fino a Brook, Grotoski, Living Theatre, Eugenio Barba, concepiscono il teatro fuori dagli edifici teatrali, preferendo “l’uso e il riuso di spazi non nati per il teatro”. Anzi l’Odin Teatret non ha mai fatto spettacoli sul palcoscenico tradizionale, tranne nel '97 per Ode al progresso.
Fare teatro esclusivamente nell’edificio-teatro significa allestire una messa in scena in luoghi costosi e duraturi, che certamente per alcuni aspetti tengono conto delle esigenze degli artisti di teatro, ma tali luoghi rappresentano anche il dato fisso, che non sempre si sposa con le esigenze e con la motivazione di mettere in scena un certo tipo di spettacolo. Tali TEATRI possono essere, anzi, un elemento “estraneo rispetto ai processi creativi che ospiteranno, contraddicendo appunto, con ciò, le loro stesse istanze progettuali e sicuramente, in ogni caso, le esigenze degli uomini di teatro riguardo allo spazio inteso come dimensione drammaturgia. Vi è a tale proposito una inchiesta del 1968 condotta dalla rivista americana “The Drama Review” a conclusione della quale Richard Schechner dichiara: “i teatri ideali sono un hobby per gli architetti”.
È importante sottolineare che l’uso dello spazio fa parte “in modo costitutivo” della drammaturgia complessiva dell’opera teatrale. Lo spazio teatrale è parte del soggetto drammaturgico, in quanto portatore di una “potenzialità spettacolari” come sostiene De Marinis, grazie alle caratteristiche materiali, architettoniche, urbanistiche. Dunque gli spazi sono anche oggetti della drammaturgia, in quanto creano le condizioni di adattamento e di trasformazione che lo rendono funzionale di volta in volta allo spettacolo, al punto che oggi si parla esplicitamente di “drammaturgia dello spazio”.
Il Movimento Dada di Zurigo, parlava di “riportare il gesto provocatorio direttamente là dove esso ha origine”, cioè dal teatro alla città. Majakowskj, alla vigilia della rivoluzione russa, passeggiava per Mosca con il volto dipinto e un mestolo all’occhiello a rappresentare l’uomo-cosa che si cala nella realtà di una città piena di cose in rivolta contro l’uomo che le ha costruite.
Gli sconfinamenti e le contaminazioni fra la dimensione teatrale e quella quotidiana sono frequenti e ricorrenti nel tempo.
In taluni luoghi veneziani è facile trovare l’atmosfera settecentesca delle commedie di Goldoni, così come nei quartieri spagnoli di Napoli si incontrano personaggi luoghi e atmosfere tipiche delle commedie di Eduardo, o di Viviani.
In questi esempi, infatti, ritroviamo riflessi i modi della realtà urbana, e del resto spesso nell’architettura e nella progettazione urbana si ricorre agli strumenti classici del teatro per allestimenti effimeri e non.
Alcuni episodi progettuali importanti delle città del Seicento e del Settecento, come Fontana di Trevi, Piazza Navona, la scalinata di Piazza di Spagna, il colonnato berniniano di Piazza San Pietro, sono stati disegnati proprio con l’occhio rivolto alla finzione scenica, alla volontà di stupire e affabulare tipica della dimensione teatrale.
Diversa la situazione dei nuovi quartieri periferici, quelli per intenderci, sorti all’insegna del funzionalismo, dove le piazze e i luoghi pubblici assumono configurazioni formali di tipo astratto-geometrico, pure convenzioni grafiche progettate a tavolino, realtà dove mancano generalmente spazi pubblici che abbiano un aspetto sociale vero e vissuto e dove sopravvivono a stento e con grande malinconia alcune “zone temporaneamente autonome”, piccole realtà sociali sparse in modo frammentario sul territorio grazie all’iniziativa di piccoli gruppi, centri sociali occupati: isole urbane di resistenza esistenziale. L’idea di frammentazione è entrata in questi ultimi vent’anni a far parte in maniera prepotente del nostro immaginario culturale e del disegno che ci costruiamo mentalmente della città: come intuiva brillantemente Vittorio Gregotti in un bell’editoriale del 1984 per la rivista Casabella: “Si parla molto - scrive Gregotti - anche in architettura, di frammentazione, di “pensiero
debole”, disponibile alla variazione, non in quanto corrispondente ad un temporaneo stato di crisi ma come momento nuovo, e probabilmente di lunga permanenza, di una diversa procedura del pensiero e quindi anche del progetto”.
Da questo punto di vista la piazza è luogo del frammentario per eccellenza e ripensarla vuol dire confrontarsi con un caleidoscopio di ipotesi, di suggestioni, di vissuti collettivi diversi e variegati che fanno della piazza il luogo delle potenzialità. Le zone temporaneamente autonome che gli individui costruiscono nello scenario urbano sono segni di riappropriazione spontanea, e spesso non consapevole, dello spazio come nel caso delle manifestazioni spontanee di piazza.
Anche l’Ottocento conosce una pluralità di luoghi di teatro, soprattutto all’estero, si pensi che verso la metà del secolo “Parigi ospitava una decina di
tipologie teatrali” ma tale pluralità era comunque parte di un sistema che vedeva l’edificio del teatro al vertice con le loro opere, e poi via via più in
basso i generi minori, popolari, dislocati in altri spazi.
Nel Novecento invece c’è stata una consapevole ricerca da parte di uomini di teatro di spazi diversi da quelli tradizionali. Si sente il bisogno di rifiutare le costrizioni imposte da un assetto spaziale come quella della sala all’italiana, l’avanguardia teatrale è andata alla ricerca di spazi modificabili, flessibili, riorganizzabili per ogni spettacolo e trasformare lo spazio del teatro “da un dato a priori immutabile in un problema drammaturgico da affrontare e risolvere diversamente di volta in volta, all’interno del processo creativo e compositivo della messa in scena”. Gli uomini di teatro hanno pertanto abbandonato i vecchi edifici teatrali e sperimentato spazi non teatrali: capannoni, magazzini, garage, cantine, chiese sconsacrate, luoghi aperti, piazze, strade, cortili, etc…
Uno dei capostipiti di tale ribaltamento è Antonin Artaud che già nel 1924 sogna un teatro spontaneo “au milieu des usines” e otto anni dopo, nel celebre
primo manifesto del Teatro della Crudeltà pensa ad un teatro che sopprima la scena e la sala, sostituendole con un luogo unico “senza divisioni né barriere di alcun genere”, propone di “abbandonare i teatri attualmente esistenti” per prendere “un capannone o un granaio qualsiasi”.
Per Artaud tutta l’arte è assimilabile alla rappresentazione drammatica, poiché l’arte è un'azione, per essere autentica deve essere sofferta, carica di
emozioni estreme, per questo richiede luoghi provocatori, lontani dalle sedi ufficiali e una nuova maniera di affrontare il pubblico.
È la mente che produce arte.
La mente, considerata come totalità organica di sentimenti, sensazioni fisiche, e capacità di attribuire significati è anche lo spazio in cui l’arte viene consumata.
Per Artaud il teatro è l’arte totale che assorbe tutte le altre, tutte le avventure ispirate dall’idea di una forma artistica totale comprese quelle tentate in musica, letteratura pittura, scultura, finiscono, infatti, per teatralizzarsi.
Il teatro usa parole, luce, musica, corpi, arredamento, abiti, luoghi, impiega una pluralità di linguaggi immagini, parole, musica (proprio perché il teatro è
carnale, corporeo).
Richard Schechner distingue “uno spazio totalmente trasformato” e uno “spazio lasciato come si trova” tale distinzione fa riferimento alla modalità di utilizzare gli spazi, ed è inconfutabile che una certa modalità d’uso teatrale di uno spazio non teatrale dipende molto dalle caratteristiche di quello spazio.
Ed ecco che gli “spazi trovati” saranno ambienti e luoghi più o meno strutturati dal punto di vista architettonico e/o urbanistico: l’interno di una chiesa, la sala o il cortile di un palazzo antico, un chiostro, una piazza, ma anche certi luoghi dell’archeologia industriale, come le vecchie fabbriche. Si pensi al Lingotto di Torino, dove Luca Ronconi ha realizzato Gli ultimi giorni dell’umanità da Karl Krauss nel 1991. In questi casi si sfruttano gli spazi così come sono, non trasformandone le caratteristiche ma sfruttandone teatralmente le potenzialità spettacolari, la loro drammaturgia interna.
Tutto il versante di sperimentazione teatrale che va dagli Happenings al teatro di strada, di piazza, dal teatro a partecipazione alla cosiddetta teatralizzazione degli spazi urbani ha praticato le modalità dello “spazio trovato”. Sono “spazi trasformati” quelli che l’intervento teatrale riorganizza ogni volta anche a secondo del tipo di relazione che si intende instaurare fra attore e spettatore, dunque saranno spazi che permettono interventi radicali, cioè che siano neutri, come ad esempio può esserlo un capannone industriale, un garage, lo stanzone di un palazzo.
Celebri spazi trasformati sono state le salette di Opole e di Wroclaw in cui Grotowski ha allestito ad esempio il Faust nel ’63, o Apocalypsis cum Figuris nel’68. Ma lo stesso Odin Teatret di Eugenio barba a Holstebro è uno di questi spazi trasformati, ed è tutt’ora una semplice sala bianca.
Ovviamente questa distinzione nella pratica non è così netta, in particolare teatranti come Ronconi o come Wilson rappresentano “dei veri e propri campioni
dell’utilizzazione teatrale di qualsiasi tipo di spazio” operando indifferentemente nei teatri veri e propri o altrove, perché a tal riguardo in questo momento come nota De Marinis ci troviamo “in una sana situazione di politeismo”.
Richard Schechner, sostiene che “l'attore non è l'elemento più importante della messa in scena”, infatti nel teatro moderno si è tentato di uscire dal luogo-teatro, “trappola architettonica”, perché l’actor e il performer devono integrarsi, proprio perché la drammaturgia dello spazio ha sostituito la drammaturgia letteraria, fondando l'assoluta centralità dello spazio scenico come matrice originaria e specifica dello spettacolo.
di Anita Laudando
Bibliografia
-Appia, La messa in scena come mezzo di espressione, da “La musica e la messa
in scena” in Attore, musica e scena, a cura di F. Marotti, Milano, Feltrinelli
-Umberto Artioli, Francesco Batoli, Teatro e corpo glorioso, Feltrinelli,
Milano, 1978
-B.Brecht, Scenografia della drammaturgia non aristotelica(1935-1942), in
Scritti teatrali, Einaudi, Torino 1975, vol. I
-P. Brook, Il punto in movimento 1946-1947, Milano, Ubulibri, 1988
-John Russell Brown, Storia del teatro, Il Mulino, Bologna 1998
- F. Cruciani, Lo spazio del teatro, Laterza, Bari, 1992
-Silvio D’Amico, Storia del teatro drammatico, Bulzoni, Roma, 1982 , vol. I
-Claudio Meldolesi, Teatro e spettacolo nel primo ottocento, Bari, Laterza,
1991
-Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, con altri scritti teatrali,
Einaudi, Torino, 1968
-R. Scherchner, La cavità teatrale, De Donato, Bari, 1969
-Susan Sontag, Interpretazioni Tendenziose, Einaudi, Torino 1975
-“TDR-The Drama Review”, 1968, n. 39 dedicato ad “architecture/environment”
-Carla Pagliero, La scena del conflitto, http:// www.ateatro.it
-T.A.Z. The Temporary Autonomous Zone, Ontological Anarchy, Poetic, Terrorism,
Autonomedia, N.Y. 1985; trad. it. T.A.Z. Zone temporaneamente autonome, Shake
edizioni underground, Milano, 1998
-V.Gregotti, Le verità dello specifico in “Casabella”, 1984 n.508
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