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Marilena Cavallo e la poesia di Giovanni Paolo II. Vita, fede, misericordia

cavallo-marilena-papa ROMA - “Luogo del mio passare-/così legato al luogo della nascita…/Nei volti dei passanti v’è il disegno di Dio,/ed il suo abisso scorre dietro la vita quotidiana.-…”. Sono versi di Giovanni Paolo II (1920 – 2005). Un Papa poeta, il cui tracciato nella storia dell’uomo, delle civiltà e dei popoli resta indelebile. Il sacro e la parola. Non una linea ma un cerchio. Si ritorna. La poesia è un ritornare. Dalle albe ai crepuscoli. Dai tramonti all’ora antelucana. Ed è sempre un viaggio nell’attesa che cerca l’attesa.
La poesia di Giovanni Paolo II (autore di opere teatrali oltre che di testi poetici e interventi teorici sul teatro) è mistero e rivelazione. Un dialogare costante con quel linguaggio che non ha mai trascurato il colloquio con l’uomo ma che intrecciava il disegno umano con quello evangelico. Una poesia nel misterioso del tempo che si allunga tra le ali dello spazio. Pur nella cristianità dell’uomo nella poesia di Giovanni Paolo II si avverte un non voler trascurare l’incontro tra il tempo e lo spazio.
Nei versi del 1952 dal titolo: “Pensiero – strano spazio” si avverte la profondità di questa visione. Una visione – dimensione in cui i segni e il sacro non sono solo modelli pastorali ed evangelici ma anche marcatamente culturali. Una poesia in cui le visioni (o la visione) sono simboli.
Si ascolta: “Se soffre per mancanza di visione – deve allora aprirsi la strada fra i segni/fino a ciò che gravita dentro e che matura come frutto nella parola./E’ questo il peso che in sé avvertì Giacobbe/quando in lui caddero stelle stanche come gli occhi del suo gregge?”.
C’è un tracciato indelebile nella poesia di Giovanni Paolo II che potrebbe riassumersi attraverso alcune sottolineature. Un tema dominante resta indubbiamente quello della luce oltre il deserto. Una testimonianza spirituale e poetica che può essere riassunta in sei riferimenti. Ovvero: il silenzio e il mistero, la preghiera e la speranza, la meditazione e l’uomo, l’inquietudine e il viaggio, la contemplazione e la morte, la Redenzione e il Cristo. La sua poesia (ha scritto e pubblicato diversi testi) è una forte componente del misterioso che attraversa la parola. Un linguaggio in cui metafora e realtà primeggiano ma al centro si focalizzano sempre l’amore, la morte, la carità, il dolore.
Restano emblematiche le poesie del 1939 e in modo particolare gli struggenti versi dedicati alla madre dal titolo: “Sulla tua bianca tomba”. Il ricordo della madre, l’immagine di Cracovia, i luoghi della sua infanzia si intrecciano con un canto che richiama costantemente una silenziosa contemplazione. Una contemplazione che anche letterariamente si agita in una metafisica dell’anima che è segno tangibile di un raccordo tra parola e offerta d’amore. Versi suggestivi: “Sulla tua bianca tomba/sbocciano i fiori bianchi della vita./Oh quanti anni sono già spariti/senza di te – quanti anni?//Sulla tua bianca tomba/ormai chiusa da anni/qualcosa sembra sollevarsi:/inesplicabile come la morte.//Sulla tua bianca tomba,/Madre, amore mio spento,/del mio amore filiale/una prece://A lei dona l’eterno riposo”.
La morte come rivelazione e la rivelazione, nella parola e nella poesia, è un sollievo misterioso e come tale indefinibile. Si pensi ai versi del “Canto del Dio nascosto”. L’uomo Karol nella storia di un pontificato. La poesia ha il pregio di raccordare anche questi aspetti in una temperie in cui la letteratura potrebbe farsi miracolo proprio attraverso il mistero della parola. Metafore che hanno un valore poetico espressivo singolare: “…era il Mare che stava dentro di me/spandendo intorno tanto silenzio tanta freschezza”.
In fondo la poesia è mistero che chiede alla contemplazione di farsi vita. Nella poesia di Karol Wojtyla questi aspetti sono predominanti. Una poesia dai toni incisivi con un verseggiare che a volte diventa rarefatto e a volte il dato prosastico prende il sopravvento. Ma si tratta di un poesia fatta di immagini e la sua tensione lirica è sempre un colloquiare. Il colloquio sta ad indicare che l’altro c’è sempre e che si ha sempre bisogno dell’altro pur nella consapevolezza di un io che supera ogni orgoglio.
La poesia nel misterioso diventa preghiera. “Questi occhi stanchi sono il segno/che le acque oscure della notte fluirono in parole di preghiera/(carestia, carestia di anime)./Ora la luce del pozzo vibra profonda nelle lacrime/scosse – penseranno i passanti – da una ventata di sogni” (da “Canto dello splendore dell’acqua” del 1950).
Sempre in questa raccolta il poeta insiste sulla necessità di scavare nella parola. In quella parola che ha colpito poeti profondamente laici ma marcatamente cristiani come Giuseppe Ungaretti. In Giovanni Paolo II la parola è sempre un richiamo, soprattutto quando sono semplici. Così: “Erano semplici le parole. Mi camminavano accanto come/agnelli ad un richiamo”. La parola è contestualmente portatrice di meditazione e di preghiera. La parola è la luce che supera il deserto. E l’attesa che vive dentro la parola è sempre “un’attesa di stelle”. E nell’attesa non può che definirsi la nostalgia della memoria che diventa un luogo sacro come in “La madre” del 1950.
Così nei ritagli e nelle pieghe delle parole: “Il mio spazio scorre nella memoria. Non svanisce/il silenzio di viuzze lontane,fermo nell’aria come vetro/che nelle pure iridi si sbriciola in luce e zaffiro –…”. La preghiera è una essenza che vive nel tempo, oltre la storia. Una parola, dunque, che ci riporta a San Francesco d’Assisi e in molte occasioni ci richiama quel Jacopone da Todi che ha segnato un percorso indelebile della poesia religiosa.

di Marilena Cavallo
Data:  29/10/2013   |    © RIPRODUZIONE RISERVATA            STAMPA QUESTO ARTICOLO            INVIA QUESTO ARTICOLO


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