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E ora vi racconto il mio Sessantotto. Firmato Pia Di Marco

pia di-marco-e-lut ROMA - Il Sessantotto e dintorni. Il Sessantotto? Morte al potere, viva la dittatura del proletariato. Frasi. Bastava uscire fuori da quei cortei per sentirsi nulla. Veramente io non ho partecipato, ero troppo ragazzina; e quando ho avuto l’età era già finito tutto. Ma l’apparenza restava anche negli anni Settanta, o meglio l’apparenza dell’apparenza. Un po’ d’anni prima Pasolini se la prendeva con i dimostranti di Valle Giulia: io sto dalla parte dei celerini - diceva - quelli si guadagnano la pagnotta, vengono da famiglie contadine o proletarie, devono portare lo stipendio a casa, altrimenti non si mangia.
E invece, noi figli di papà non dovevamo portare niente a casa, neppure noi stessi. Non eravamo tenuti: i “matusa” non si permettevano di chiedercelo, quei pochi che lo facevano erano “fascisti”, gli altri erano troppo occupati a vivere la loro vita per chiederci qualche cosa. Eravamo noi a chiedere: specialmente i soldi. Li prendevamo come si prende la carta igienica al cesso - inevitabile, ma non significativa - e contestavamo i detentori dei mezzi di potere. Andavamo in giro con magliette sbrindellate, poncho, jeans, clark, per sentirci un po’ poveri, un po’ sudamericani, un po’ operai della Fiat. Le scarpe per marciare nel deserto, le clark, appunto, venivano indossate per camminare nel nostro deserto cittadino. Avremmo potuto mettere le pinne ai piedi: la città sarebbe stata il nostro mare? Intanto, i veri proletari il sabato sera uscivano con la camicia buona: uno strappo alla maglietta col Che Guevara sul petto non l’avrebbero mai tollerato. Forse, non avrebbero neppure messo una maglietta col Che Guevara, chi lo sa? Noi non li frequentavamo. Che sapevamo di loro?
Dopo trent’anni ho avuto modo di ascoltare un ragazzo di allora, uno che non faceva parte della gauche caviar, insomma, come si deve dire? Uno che lavorava. A quattordici anni andava a scuola. A quindici aveva trovato un lavoro. Che altro avrebbe dovuto fare? Il liceo non era all’orizzonte del suo mondo. Il padre lavorava in una fabbrica di mattoni a Vale Aurelia, primo di quattro figli trapiantati a Roma da Colle Civitella, nella campagna abruzzese. Era stato l’unico a trovare lo stesso lavoro che faceva in Abruzzo, nella fornace andata in rovina a causa del proprietario, irrefrenabile bevitore (sembra che bevesse anche a letto, di nascosto della moglie, con un caucciù piazzato sotto il materasso). Il mio ragazzo degli anni Settanta mi raccontava queste cose la scorsa estate, di sera, in un caffè del Pigneto, sulla Prenestina, un quartiere molto vivo, qui a Roma, e riqualificato dopo anni di abbandono. Una musica scatenata - la disco music - andava a tutto volume e talvolta non sentivo le sue parole e lo bombardavo di “come?” e gli facevo domande anche stupide a cui ridevamo, poi.
Questo ragazzo, a quindici anni faceva, precisamente, l’operaio in un’industria di porte e infissi che si trovava a Castel Madama. Prendeva il treno per Pescara tutte le mattine e, al ritorno, intorno alle sei del pomeriggio, se la faceva a piedi dalla stazione Termini fino a via Conte di Carmagnola, dove abitava. “Tutto dritto fino a Piazza Vittorio - diceva – superi Porta Maggiore, ancora dritto per via Prenestina, poi giri a destra, ancora a destra, alla fine ci arrivi a via Conte di Carmagnola ”. Ah, sì che ci arrivo. Mi ricordo quando bazzicavo dalle parti della stazione più o meno mentre lui faceva le sue scarpinate: andavo dalla psicoanalista che aveva lo studio in via della Consulta, una traversa di via Nazionale. All’uscita sostavo davanti a via De Pretis, per vedere in lontananza un velario rosato con un campanile. Che chiesa era? Non lo sapevo. Non credo fosse Santa Maria Maggiore. Me ne stavo lì, sul picco di una strada tutta salite e avallamenti e sognavo di dipingere, un giorno o l’altro, con tavolozza e cavalletto da pittura en plein air, la mia “cattedrale di Rouen” - nientemeno - con la luce di mezzodì, simbolica per me perché a quell’ora finiva la seduta e dicevo addio, per quel giorno, al mio inconscio misterioso.

Quando entravo in facoltà (Lettere e Filosofia), negli anni Settanta, ancora si vedevano ragazzi con le zazzere fluenti (i capelloni) e la barba di quattro giorni, il golf peruviano d’alpaca, qualche libro infilato nelle borse di lana intrecciata - unisex, perché non si ponevano differenze tra i generi, bastava l’enorme, incolmabile divario generazionale. Si dicevano due parole, la terza doveva essere “Marx”, la quarta “collettivo”, altrimenti non era un discorso. Il fatto è che Marx non credo l’avessimo capito. Come avremmo potuto appropriarci dei mezzi di produzione - noi, che non producevamo? Che non sapevamo neppure che cosa fosse “lavoro”? Era una dialettica per contadini, quella, per operai e apprendisti, per tutti quei coetanei che da via Conte di Carmagnola o da qualsiasi periferia arrivavano a piedi alla stazione alle cinque del mattino, e balzavano sul treno Roma-Pescara e si appropriavano con gli occhi, con le mani, con la mente dei mezzi di produzione trasportando pannelli di legno, magari coprendo le castronate di un compagno negligente o addirittura del principale.
Marx - neppure lui ci avrebbe capiti. Sono convinta che l’incomprensione sarebbe stata reciproca. Quanto a Hegel, per amore della sua dialettica avrebbe osservato il nostro caso. E’ lo spirito del mondo avrebbe detto. O forse no, mancavano i presupposti. Forse ci avrebbe freddato, nella sua impervia terminologia, come “l’essere per un altro”, gli inconsapevoli, quelli che non hanno responsabilità di sé delegandola agli altri.
Hegel mi fissava poco cordiale dalla copertina della Fenomenologia dello Spirito, volume primo e secondo. Quanto l’avevo studiata la Fenomenologia, sulle prime capivo poco e niente. Ma perché questo qui non deve scrivere come tutti, in modo normale, mi chiedevo. “Essere per sé”, “essere per un altro”, la “cosalità”, ma dove sta la storia? E la vita? Il professore di Filosofia Teoretica era un brav’uomo, allampanato e gentile, molto “borghese” (così si diceva di uno in giacca e cravatta); si ritraeva dalle nostre inquietudini come il bagnante dall’acqua fredda. In Hegel traeva il meccanismo per slittare su tutte le cose: il superamento delle contraddizioni, il rovesciamento della coscienza, l’ordine ritrovato. Insomma, non aveva le phyisique du rôle per cavare da Hegel il magma dissacrante dalla “dialettica del negativo”.
Che cos’è la dialettica del negativo? avevo chiesto un giorno, tremebonda, a una compagna, mentre eravamo in attesa all’appello di un’altra cattedra, Filosofia della Religione. “La filosofia di Hegel - fa quella - tesi antitesi, sintesi e voilà, lo Spirito del mondo è pronto per un altro giro. Se tu hai una tesi…”
“Sì?”
“Una frullatina ti farebbe bene, metti in discussione tutto, le coscienze si rovesciano e tutti insieme facciamo un balzo nella Storia, a un livello più alto, si capisce. Mica siamo i soliti coglioni che vorrebbe Vico.”
“Corsi e ricorsi della Storia… “
“Hegel col suo negativo aveva inventato un motore formidabile. E poi aveva capito che il valore sta nel casino, quando tutti dicono no, perché a dire sì e fare i pecoroni la Storia non cammina e la vita non ha sale.”
Proprio così. Quella compagna, dopo l’appello, mi chiese in prestito il volume dei Primi scritti critici del Filosofo e non me lo restituì. Anche quello era il negativo hegeliano, probabilmente. Comunque, una parte di quell’astrusa Fenomenologia m’era rimasta nel cuore, la dialettica di “Signoria-Servitù”. Ho consumato le pagine di quel capitolo, le ho scarabocchiate di note fino all’inverosimile. Il servo produce, ma non c’è, non sa di esserci: è come se vivesse in grembo al signore. E il signore è l’organismo pervasivo e totalizzante, l’unico a sapere di esistere. Ma arriva un momento in cui i nodi vengono al pettine: il servo ha paura di essere sopraffatto dal signore, trema e si rende conto di tenerci alla pelle. La paura è come l’ombra: guardandola capisci di avere un corpo. Quel che succede poi, è stato vero solo nelle pagine della Fenomenologia e nel Capitale di Carlo Marx. Il servo diventa cosciente di sé, del proprio lavoro, si appropria dei mezzi di produzione, diventa signore del suo signore. Di fatto, questo rovesciamento dialettico non l’ha visto la Russia del Piccolo Padre Stalin, crudele signore neo-medievale, né la Cina di Mao, se i cinesi componevano coi loro corpi il ritratto vivente del Grande Timoniere, signore hegeliano a tutti gli effetti. E Marx che credeva di essere arrivato alle colonne d’Ercole della Storia con la figura del servo autocosciente - e signore!

Quante fantasie mi fiorivano in testa, si rincorrevano minute, agilissime e proteiformi come le figurette intorno all’iniziale di un codice miniato. A me non importava granché di individuare nella dialettica di “Signoria -Servitù” le figure storiche: lo stesso Hegel doveva provarne un certo disgusto per ammantarle del suo criptico linguaggio filosofico - e si ha un bel dire che strizzava la Storia come si fa con un quintale di arance per ricavarne qualche bottiglia di succo concentrato (lo Spirito). Insomma, non m’importava di riconoscere nel signore il latifondista, il cacciatore col falcone, il castellano che getta ossi ai cani e ai servi nei banchetti. Né il servo in quei contadini miseri e scurrili, sparsi attorno alla campagna o brulicanti dentro le mura del castello, inconsapevoli e non ancora formati all’ “essere-per-sé” (ma non si potrebbe dire “responsabili”?) No, nella dialettica di “Signoria-Servitù”, come da un cappello a cilindro, cavavo dualismi che m’intrigavano. Dapprima m’ero fatta l’idea che il signore hegeliano fosse la Grande Madre - la mia. Ricordavo i secoli bui dell’infanzia quando era lei sola a esistere, io ne ero il braccio, il prolungamento, non esistevo per conto mio.
In seguito, nel Signore-Servo ho visto la doppiezza dell’anima umana. Il signore prendeva gli impalpabili contorni del Super Io freudiano e il servo, dell’Io che s’arrabatta tra colpe, divieti e le infinite possibilità che il mondo offre. Un’alzata di sopracciglio del Super Io e l’Io è come una città scomunicata, non fa più commerci e commistioni con i suoi simili. Come sarebbe finita? E chi lo sa, bisognava chiederlo all’analista. Io m’ingegnavo di trovare una soluzione ed era più o meno questa: l’Io servile ha paura, ma pian piano viene a patti col proprio signore interiore, media fra quel che deve essere e quel che può essere, quel che accade. Dopotutto il Super Io, come il signore medievale, che ne sa di come si vive qui, ora? Se ne sta attaccato a un tempo che non esiste più, l’infanzia angosciosa. E invece càpita. Che ci vuoi fare? Per esempio, ci si può innamorare dell’uomo di un’altra, non è bene, ma càpita, vediamo di non sfasciargli la famiglia, la reputazione, la testa. Ma come si fa a rinunciare a vederlo, a farci l’amore di tanto in tanto? Eh, caro Super Io? Quando avrai capito che al cuore non si comanda - quando io mi sarò rassegnata a non chiamare l’amante a casa alle nove di sera - allora, credo, si sarà verificata la sintesi hegeliana fra tesi e antitesi applicata all’anima. E potrò elevarmi a un’altra figura storica nel costume delle genti: l’amante abbandonata o la seconda moglie ormai annoiata. C’est la vie!
Nella dialettica “Signoria-Servitù” avevo trovato anche il segreto del mio modo di amare e di intendere la seduzione. Io ero il servo, sempre, dovunque, con chiunque, ma specialmente con chi amavo. Ogni mio gesto tendeva a evocare questa immagine nella mente di chi eleggevo signore. Obbedienza? Dedizione? Fedeltà? Soprattutto, bisogno di “essere-per-un-altro”: Hegel mi soccorreva, pur così lontano dal cuore e dall’amore.
Non avrei potuto sopportare di “essere-per-me”, di sentirmi un solido occupante lo spazio, una mente definita e, per questo, spaventosamente sola. Con la mia servitù speravo di non essere, per non essere più sola; speravo di ardere nella la scintilla di vita dell’altro, docilmente accarezzando la sua onnipotenza. Chi potrebbe rinunciare a una tale possibilità? Sarebbe come rinunciare a sé stessi. Nessuno vorrà farlo - ne ero certa, come la rondine che indossa il vento.
Mia madre, per esempio, come avrebbe potuto rinunciare a sé? Avrebbe facilmente rinunciato a me - se veramente le fossi nata. Ma non le ero nata: le facevo da specchio, da sguardo, prendevo la forma che lei voleva. E’ stata la mia prima servitù. Ne sono seguite molte altre: la maestra, le compagne, il primo ragazzo, tutto il mondo. La mia servitù era necessaria, avvolgente: e talvolta capitava che il servo diventasse signore del proprio signore. Però mia madre non è mai diventata il mio servo, né io mi sono “insignorita” di lei. Perfino in tarda età, quando mi accettava perché non mi riconosceva, persino allora le facevo da specchio - infranto - della sua infranta memoria.

I postumi del Sessantotto sono stati anche l’eroina (per vena), l’atmosfera da tenda indiana, la siringa che girava tra fratelli di sventura come il calumet della pace. A quegli scenari io non ho partecipato, ma ne posso dire qualche cosa per via di una coetanea, un altro incontro “in differita” simile a quello del mio ragazzo degli anni Settanta. Le persone, a volte, arrivano come segnali luminosi partiti da abissi temporali e io ho cominciato a capire qualcosa di quel periodo solo ora, davanti a stelle incontrate nei caffè di periferia. Lei aveva gli occhi spalancati, allucinati, febbrili. E costernati. Non avevo bisogno di chiedermi che cosa potesse significare quello sguardo. Le pupille dilatate mangiavano l’azzurro dell’iride, sfavillante quand’era felice, ne mutavano lo sguardo dolce, fiducioso in un guizzo d’animale braccato, pronto a difendersi fino alla morte. La “roba” la riduceva così e ogni proposito di uscirne si vanificava nel giro di poche ore. Ai tempi delle rivolte studentesche questa ragazza degli anni Settanta faceva la sua contestazione con le “pere” e il fumo “bbono” in appartamenti sporchi, invasi da un caos indescrivibile, col minestrone che colava dal televisore. Si rivoltava sui letti in ammucchiate che dovevano essere il segno manifesto dell’amore libero; il barista sotto casa bisbigliava al padre, disperato: “Sa, io sono pùdico ” e l’accento sbagliato sembrava esprimere maggiore lontananza, estraneità da quella messa in scena del vuoto assoluto.
Una volta ho visto un quadro di un tizio, la michelangiolesca Pietà col Cristo trafitto da un’enorme siringa. Ogni drogato è un cristo e un figlio, uno di quelli che devono “farsi” per essere. Del resto, allora erano in parecchi a cercare una consistenza in qualche modo. Finché non sono arrivati quelli che sparavano per essere, le Brigate Rosse. Non dimenticherò mai quel pomeriggio del nove giugno 1978, dieci anni dopo il mitico Sessantotto. La foto di Aldo Moro ucciso dalle BR e sistemato nel cofano di un’auto in via Caetani riempiva lo schermo del televisore, altre auto con gli altoparlanti giravano per il centro facendo propaganda allo Stato che si stracciava le vesti. L’angoscia m’aveva invasa come un veleno. In quel povero corpo vestito di nero vedevo il nulla di quelli che sfilavano dentro e fuori dall’università, di quelli che si sbrodolavano di sesso e di “pere”, perfino di quelli che col mitra credevano di fare il Che Guevara e di avere el pueblo dalla loro, mentre erano solo pedine di trame che li sovrastavano, e assassini. Aveva avuto ragione Pasolini quando aveva scritto, con anima profetica, nel 1973*: “Alzando una barriera insormontabile contro i padri [i ragazzi] si sono chiusi in un isolamento, in un mondo a parte, in un ghetto riservato alla gioventù che impedisce loro il confronto dialettico con la cultura precedente” e, dunque, la possibilità di essere.
Quanto a me, pur non avendo mai fatto parte di ghetti riservati alla gioventù, soffocavo nel nulla dopo le estenuanti prove per adattare la filosofia hegeliana alla mia paura di stare al mondo. Quel 9 maggio ’78, intabarrata sotto pesanti coperte come fossero un carapace per non esplodere, per non sentire il messaggio degli altoparlanti, avvertivo la mia personale catastrofe. Non riuscivo più a essere il servo di nessuno e non sapevo essere il signore di me stessa.

*P.P. Pasolini, Contro i capelli lunghi, “Corriere della Sera”, 7 gennaio 1973, in Scritti corsari, 1975, 6a ristampa, Garzanti, Milano 2013, pp. 5-11

di Pia Di Marco
(Artista, scrittrice)

PAGINA DEDICATA AL SESSANTOTTO
Data:  16/10/2013   |    © RIPRODUZIONE RISERVATA            STAMPA QUESTO ARTICOLO            INVIA QUESTO ARTICOLO


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