ROMA - Se assomigliassi davvero a quella zia paterna vanitosissima, da cui in famiglia si diceva avessi preso la propensione all’addobbo, potrei sfacciatamente affermare che nel 1968 ero quasi una bebè. Poiché, però, non mi piace barare al gioco e le bugie inutili vengono, grazie ad Internet, subito svergognate, mi delimiterò temporalmente, dicendovi che nel 1968 ero arcinata, ma ancora non avevo assunto un’autonomia d’azione. Di anni ne avevo 12 e vivevo a Napoli, anzi vi vegetavo, visto che una noiosissima scoliosi da due anni mi aveva inchiodata ad essere perennemente impalcata in un busto di acciaio. Se aggiungete che, all’epoca, ero occhialuta – bisognerà avviare la causa di beatificazione per l’inventore delle lenti a contatto… - e con l’apparecchio per i denti, ero davvero una ‘scarrafona’.
In seconda media, tappata in un Istituto per jeunes filles de bonne famille, il Sacro Cuore in Corso Europa, non avevo altro scampo che… leggere, studiare, conquistarmi un po’ di spazio che distraesse dalla mia ‘anormalità’ fisica grazie al primato scolastico.
Insomma, ero una secchiona saccente – tale e quale ad ora… il vizio è rimasto – e certo non badavo alle ansie di ribellione che covavano nei ‘grandi’, quelli che frequentavano il Liceo o l’Università.
Sembrava che fossero cittadini di un altro Paese e al Telegiornale, allora monocratico (c’era solo la Rai e le Tv private erano di là da venire), certe notizie erano molto silenziate. Però, forse, si respirava un’aria ribelle, malgrado tutto, perché anch’io misi su una piccola ribellione. Stupida, infantile, irrilevante, ma sempre ribellione contro un certo ordine costituito.
Proprio in quegli anni, infatti, mi liberai della crisalide del busto, gettai l’apparecchio dei denti (scema, dopo ne ho pagato le conseguenze, ma il dentista era proprio antipatico, mi prendeva persino a sberle…) e provvidi ad una sorta di restyling totale.
In contemporanea, arrivò una tegola: le suore, stufe della mia tracotanza scolastica e del fatto che, prepotentemente, facevo risaltare i limiti delle altre alunne, decisero di darmi una punizione esemplare.
Avevo un tallone d’Achille in disegno e decisero che una pagella di 9 e 10 doveva essere offuscata con un 5 in disegno, equivalente agli esami a settembre in quella materia.
In me davvero crebbe un’ansia rivoluzionaria degna di Daniel Cohn-Bendit, che di quei tempi imperversava sulle barricate studentesche. Sentivo il peso dell’ingiustizia, acuita dal fatto che, ancora prima che fossero pubblicati i quadri, mia madre aveva ricevuto una telefonata a casa, da una sedicente insegnante di disegno che offriva i suoi servigi per dirozzarmi “visto che ero stata rimandata a settembre”.
Un fatto, questo, che l’indignò molto e la rese complice della mia puerile, scellerata vendetta. In prossimità della data degli esami di riparazione (allora non erano di moda i debiti formativi), convocammo l’estetista, che provvide a depilarmi le gambe con la ceretta bollente – meno male che non s’usa più, era proprio una tortura medievale – ed ad affinarmi le sopracciglia, fino ad allora piuttosto selvagge.
Il parrucchiere di mammà, Peppino, a via Scarlatti, mi creò delle meches biondo oro, da diva. D’altronde, uno degli effetti collaterali del busto era stato quello di farmi crescere anticipatamente, tanto che ero fra le più alte dell’Istituto, cosicché dimostravo minimo 18 anni.
La sarta ci pensò ad accorciare di quattro dita buone la monacale scamiciata - che, con una camicetta rosa, costituiva la nostra divisa estiva -. La minigonna imperversava, anche quella veicolata dai venti del ’68.
Da D’Andria, raffinata profumeria di Cava de' Tirreni, acquistammo un paio di calze di Dior (ricordo il colore, pesca) ed ebbi il mio primo reggicalze (i collant erano di là da venire, spuntarono un paio d’anni dopo). Sostituirono i calzettoni da ragazzina che le monache pretendevano, anche se sembravamo sgraziate giraffe… Tocco finale, il cambio della montatura degli occhiali: da quella metallica, squadrata che mi faceva sembrare una zitella inglese ad un’altra, molto grossa e fru fru.
Insomma, all’esame mi presentai, rivoluzionaria in erba, addobbata come una ventenne, trucco compreso, avendo attinto dal beauty case di mia madre.
Alla mia apparizione, sconvolsi tutto lo stuolo di monache, madre Pennarola, la nostra responsabile, in testa. Non potrò mai dimenticare le espressioni fra lo sbalordito e il disgustato che suscitai.
Feci l’esame e lo superai, disegnando l’unica cosa che mi ero allenata a fare, un panorama ridicolo che, oggi, farebbe specie persino ad un bimbo dell’asilo…
Puntando all’attacco, ma diplomatico, madre Pennarola, dopo la prova, mi avvicinò, dicendomi con voce mielosa: “Annamaria, tesoro, devi dire alla tua cara Mamma che si affretti ad iscriverti in terza media. Naturalmente, ci aspettiamo che tu diventi più umile e meno competitiva, lasciando spazio anche alle tue compagne di scuola.
Alcune madri si son lamentate che tu, con la tua esibizione di cultura, non fai emergere le loro pur bravissime figlie, le intimidisci… E, quando verrai, ad ottobre, conto che ti sarai liberata di questa mascherata, allungando le gonne e indossando i calzettoni.”
Ricambiando ipocrisia per ipocrisia, finsi di cadere dalle nuvole: “Reverenda Madre – e feci un piccolo inchino, ché così ci avevano insegnato a comportarci – ma la segreteria non l’ha informata? Mamma è venuta a chiedere il nullaosta per il trasferimento alla scuola media “De Lorenzo” di Nocera…” Mi guardò, una volta tanto senza parole, proprio come se avessi lanciato davanti a lei una Molotov.
di Annamaria Barbato Ricci
(Giornalista e opinionista)
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