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E’ la burocrazia, Direttore, che uccide come a Lampedusa. Caso Italia-Nairobi

pia di-marco-e-lut ROMA - Egregio Direttore, ancora oggi, lunedì 7 ottobre, ascoltiamo i notiziari sulle duecento vittime di Lampedusa. Il maltempo ha impedito, in questi giorni, le ricerche o le ha rese frammentarie, bare e loculi sono stati rimediati dappertutto, c’è stata la giornata di lutto nazionale, si sono decise misure da prendere, come quella, appunto, di proclamare altre simili giornate di lutto. Qualcuno ha chiesto aiuto all’Europa, altri hanno protestato perché l’Europa non ci aiuta, Laura Boldrini ha presenziato la giornata di strazio, Angelino Alfano si è precipitato a Lampedusa, Enrico Letta ha profetizzato che non sarà l’ultima strage, altri hanno osservato che questa strage ci ha colpito perché è avvenuta sotto i nostri occhi (di solito avvengono in mare). Cécile Kienge ha detto che bisogna rivedere la Bossi-Fini: effettivamente, bisognerebbe farlo perché è un ossimoro. Per venire a lavorare in Italia bisogna avere già un lavoro in Italia, insomma, qualcuno ti deve chiamare a scatola chiusa. Conoscevo un tale, uno dello Sri Lanka, che un giorno mi ha detto: “chiami un po’ di amici miei? Ti pagano bene”. Ma guarda ‘sto Giuda, ho pensato inorridita. Ma forse, dal suo punto di vista, cercava di ottimizzare la situazione tenuto conto della corruttibilità dell’italiano medio. Tornando a Lampedusa, ho riassunto un po’, e in modo molto lacunoso, il brusio di radio e televisioni. Poi ci sono le voci del mercato rionale, del condominio, della strada sotto casa: quelli del ceto medio-basso sono più o meno per “gli sta bene, che ci vengono a fare in Italia?”. I gauche caviar, quelli della sinistra, indossano la metaforica fascia nera al braccio. Poi, tutto passa. In ogni caso, fra le proposte per fare qualcosa e per dare solidarietà, quella di istituire i lutti nazionali in caso di strage di imbarcati in fuga dai loro Paesi salta all’occhio per retorica insipienza.
Vorrei raccontarLe, egregio Direttore, un fatto di cui ho contezza perché è avvenuto sotto i miei occhi, con la mia improvvida e ruspante partecipazione: una goccia nell’oceano, direi, ma l’oceano è in ogni goccia. Più o meno quattro anni fa, due miei amici di Mogadiscio, un ingegnere informatico e un chimico industriale, volevano tentare la strada dell’emigrazione: venire in Italia a cercare un lavoro. A Mogadiscio gli intellettuali, o meglio, gli, istruiti sono ad alto rischio di sopravvivenza perché i fondamentalisti li considerano male, tanto che non possono uscire di casa né lavorare per non svelare le loro attitudini. Queste famiglie sopravvivono grazie al soccorso di sorelle, cugine arruolate come colf nei vari paesi stranieri, e di quelle rimaste a casa che vanno a riscuotere i dollari che arrivano con un sistema privato di corrieri basato sulla fiducia. La società somala, in Somalia e all’estero, si regge sulle donne: vere e proprie api operaie, si adattano a fare tutto quello che la religione musulmana consente loro di fare: badanti per una utenza esclusivamente femminile, bambinaie, collaboratrici domestiche. Gli uomini non sono e non possono essere altrettanto flessibili: un somalo, laureato o no, non farà mai il badante o il cameriere, come capita in altre comunità di emigrati. Insomma, i miei due amici, forti anche di un’esperienza lavorativa qualificante prima che la guerra civile cadesse giù come una mannaia su quel Paese, pensavano di venire in Italia. Avevano la possibilità di essere ospitati da due sorelle; la discreta conoscenza dell’italiano, dovuta anche al fatto che avevano usufruito dei cascami del colonialismo (da bambini avevano frequentato scuole italiane), faceva loro sperare in una buona possibilità di riuscita dell’impresa. Ma, ecco la grande domanda: come ottenere il visto dall’ambasciata italiana a Nairobi, in Kenia (in Somalia la nostra ambasciata non c’era). Si potrebbe fare domanda per ragioni di studio, suggerisco. Del resto, i miei amici erano consapevoli che un corso d’aggiornamento avrebbe fatto loro bene, e avrebbe potuto essere l’occasione per entrare in contatto con qualche azienda, chissà. Ricordo che avevo passato giornate febbrili per prendere informazioni sull’occorrente per il visto a scopo di studio. Prima di tutto, occorreva il certificato originale di avvenuta iscrizione a un corso di formazione professionale. E via con le due sorelle a fare l’iscrizione in un noto istituto privato: Euro 1500,00 a corso, totale Euro 3000.00. I risparmi delle suddette si assottigliavano. Poi bisognava provvedere alla polizza assicurativa sanitaria il cui costo ora mi sfugge, ma era sempre in termini di qualche centinaio di Euro. Finalmente tutta la documentazione (iscrizione, versamenti, polizze sanitarie, contratto di locazione intestato alle sorelle, contratto di lavoro delle medesime) era pronta per essere inviata in originale all’ambasciata, all’attenzione del funzionario preposto ai visti. Il plico partì con nostra soddisfazione a mezzo di un corriere piuttosto caro, d’altra parte c’erano scadenze da rispettare e il materiale, originale, non poteva essere disperso. La prossima mossa doveva essere compiuta dagli interessati: a tempo debito, scettici di fronte al nostro femmineo entusiasmo, presero l’aereo per Nairobi. Il soggiorno costava parecchio, d’altra parte bisognava attendere i tempi e i modi dell’ufficio-visti, non si poteva dire sbrigatevi perché l’hotel dove ci tocca soggiornare finché non vi decidete costa caro. Gli ultimi risparmi delle sorelle si volatilizzarono per un verdetto irrevocabile: visto negato. “Che vi aspettavate?” dicevano i miei amici al telefono. Ero furente. Ma perché l’ambasciata impone tante pratiche costose a scatola chiusa, mi dicevo, se poi il visto viene negato? E non si poteva neppure ottenere un risarcimento almeno della polizza assicurativa perché occorreva l’originale. “Ma se l’originale è all’ambasciata italiana a Nairobi?” Gridavo all’asettico impiegato. Mi ricordo che protestai presso il Ministero degli Esteri: mi arrivò una e-mail evasiva, in “italiese”, a cui non era lecito rispondere. Ecco, Direttore, questa è l’esperienza di un tentativo impeccabile e legale di lasciare un Paese dove sei perseguitato perché hai una laurea e non puoi lavorare. Naturalmente, ci sono casi ben più disperati, dove non si può aspettare di sapere che cosa decidono le ambasciate, né si hanno sorelle pronte come api operaie a sacrificarsi. L’alternativa a questi percorsi legali sono i barconi. Impresa rischiosissima e onerosa: ma forse, se faccio i conti, non molto più cara di quella legale. E poi, dopo che hai pagato, t’imbarchi: potrebbe anche andarti bene. Inoltre, gli scafisti rischiano di persona, non se ne stanno dietro una scrivania a negare visti nonostante le somme versate e le carte prodotte. E’ la burocrazia, Direttore, che uccide tutta quella gente che nessuno ascolta; la burocrazia che strizza l’occhiolino di ufficio in ufficio, di Paese in Paese, giocando con la pelle dei disperati a colpi di fogli originali, spillando denari che poi non si possono neppure richiedere indietro. E nessuna meraviglia se i più, imbarcati in 400 su un guscio di noce, neppure per un attimo prendono in considerazione ambasciate e consolati. I corridoi umanitari non esistono, esiste un ciarpame di regole fatte apposta per chiudere le porte e le finestre dei Paesi ospiti, che riescono anche a lucrare un po’ di spiccioli in favore di qualche ente o istituto o compagnia assicurativa. Salvo poi proclamare giornate di lutto nazionale, si capisce. Dicono che i coccodrilli piangono dopo aver mangiato i figli.

di Pia Di Marco
Data:  7/10/2013   |    © RIPRODUZIONE RISERVATA            STAMPA QUESTO ARTICOLO            INVIA QUESTO ARTICOLO


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