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Un drammatico Anonimo Veneziano, Berto verso il Centenario della nascita

berto ROMA - Giuseppe Berto verso il Centenario della nascita. Lo scrittore che fa parlare Giuda e racconta il destino degli amanti di un drammatico Anonimo Veneziano. Il tema dominante del viaggio che compie Giuseppe Berto (Mogliano Veneto, 1914 – Roma, 1978) è un intreccio non solo letterario ma anche esistenziale e psicologico tutto giocato tra amore e morte. Ovvero tra la capacità dell’amore di farsi definizione ancestrale di un modello di vita, che ha in sé il senso del destino, e la realtà della morte che diventa, nei suoi scritti, sempre più consapevolezza di un andare nel di dentro della vita stessa senza la paura della perdita.
Uno scrittore che ha amato il mare e soprattutto la Calabria. Ha amato la Calabria, ho avuto modo di raccontarlo in due trasmissioni per la Rai, sino a sondarne le viscere e lì continua a vivere. Ma è un discorso altro che è nei luoghi della sua metafisica geografica e spirituale (capitolo tutto da affrontare).
Nel 1947 esce Il cielo rosso. Una storia il cui segno politico è preciso. Ma ci sono altri libri che sottolineano il rapporto sempre più profondo, appunto, tra la morte come consapevolezza di definito e la vita come attesa del definire.
Il male oscuro del 1964 segna, comunque, il suo punto di riferimento non solo letterario, ma anche esistenziale. È Il male oscuro che rende Berto scrittore “nuovo” in un contesto in cui il legame letteratura e psicanalisi costituiva un dialogo sempre aperto e discutibile. Ci sono i libri di memoria come quello già citato del 1947 e poi Guerra in camicia nera del 1955. Altri come Il brigante del 1951. Al 1978 appartiene La gloria in cui c’è un rapporto costante tra Gesù e Giuda. Un libro tutto da rileggere e da rimeditare. La figura di Giuda è centrale.
Berto, scrittore sì del rapporto tra amore – morte, ma anche uno scrittore che va alla ricerca di una religiosità che si fa sempre più ricerca cristiana, intenso travaglio, inquietudine, turbamento, disperazione. È così in La gloria. Forse il libro più conflittuale che ha lasciato.
Del 1966 è La cosa buffa. Un romanzo d’amore che, comunque, non raggiunge quella tensione lirica alla quale lo stesso Berto tendeva. È con Anonimo veneziano che l’incontro tra amore e morte non si fa solo denso di significato tragico, ma è un romanzo che vuole tagliare e dimenticare la disperazione e l’amicizia. Nato come dialogo di un film. Era il 1971.
Berto lo scrisse per Enrico Maria Salerno nel 1967. Ci furono altre stesure dello scritto stesso. Ma è la problematicità che vive dentro le pagine di un romanzo agilissimo nel quale, appunto, si gioca un rapporto di coppia. L’amore prima, il conflitto dopo, la morte alla fine. Siamo a Venezia. La Venezia dei miti, ma anche la Venezia di Thomas Mann. È la Venezia in cui gli anni possono vivere e morire. Possono tradirsi ma non dissolversi.
Berto nella Prefazione sottolinea : “Posso dire che in vita mia non avevo mai lavorato tanto per scrivere tanto poco, né mi ero mai così abbandonato al tormentoso piacere di permettere ai pensieri di cercare a lungo le parole più appropriate, e nel cercarsele magari mutano e differentemente si presentano sicché ne vogliono altre, e così via”.
Ma c’è una storia d’amore e di morte che si consuma. Lei e lui si perdono, si lasciano, si ritrovano. Ma questo ritrovarsi è nel perdersi definitivamente “quando che ti fa soffrire è uno che ami, l’unica possibilità di difesa è amarlo di meno, se ci riesci”. Ma non ci si riesce. Questo è il dramma.
La sofferenza percorre tutte le pagine del romanzo. Una sofferenza sottile che attraversa tutta la storia, ma attraversa le due coscienze e un amore che, nonostante tutto, non si è spento. Lui morirà per un male incurabile, ma l’amore continuerà a vivere. Anche nella tragedia l’amore segna la continuità.
“Ci saremmo uccisi, se ad un certo momento non te ne fossi andata”. Si diranno. Si ascolta: “Volevo perderti, quando ci siamo divisi, addirittura cancellarti dalla memoria”.
L’amore è negli occhi vuoti di lui che cercandola si cerca, mentre la morte è il senso vero di un trasporto. “Ho il senso della morte. Non l’hai avvertito, tu che mi leggi dentro?”.
Ma si cercano. Lui dirà in quel suo sentire la morte come avvicinamento alla vita : “Io ti amo senza far l’amore”. Mi pare l’espressione più alta di questo libro nel quale vi campeggiano delicatamente e tristemente i temi di Berto.
È il libro di Berto che lega Il male oscuro a La gloria. Accanto all’amore, alla morte c’è lo scadenzare del tempo che è un battito lento, preciso, superbo e che non ha paura di nulla.
“La cosa più difficile è farsi credere quando si dice la verità”. La verità! Ecco perché il libro che il protagonista di questo romanzo porta sempre con sé è L’ecclesiasta. Un simbolo, una metafora. Ma ancora un gioco. E in questo gioco, in una Venezia che aspetta l’amore, c’è la morte che rapisce.
La fine e il “cominciamento”. Cose che si ritrovano in tutti gli scritti di Berto. Ma è proprio con le parole di Berto che si chiude e si supera il viaggio in una letteratura che è vita.
Così: “E’ bene aggrapparsi alla musica o alla poesia, cercare un rapporto con l’arte, non con lei. La morte è un fatto solitario, non si può morire insieme, se non nel senso che tutto e tutti devono morire, e ci si trova in una città dove ciò è più che evidente. Fa un cenno al ragazzo nella cabina, per dirgli che si può cominciare”.
Si comincia. Berto usa le metafore del “comincianeto” per segnare anche l’inizio della fine. Musica e arte nella Venezia che ha visto morire un amore.
Ma la letteratura di Berto è un viaggiare nella consapevolezza di una vita che è un tempo immenso e indefinibile. Così come in Il male oscuro, in Il cielo è rosso, in La gloria e, appunto, in Anonimo veneziano. Andiamo verso il centenario della nascita dio Berto. Un appuntamento che ci vedrà impegnati in prima linea come Sindacato Libero Scrittori Italiani.

di Pierfranco Bruni
Data:  24/9/2013   |    © RIPRODUZIONE RISERVATA            STAMPA QUESTO ARTICOLO            INVIA QUESTO ARTICOLO


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