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Da Quasimodo a Carrieri, sulle sponde della Magna Grecia i poeti e il viaggio

bruni 4 ROMA - Sulle sponde della Magna Grecia i poeti hanno cercato il viaggio sulle rotte del Mediterraneo: da Quasimodo a Raffaele Carrieri. Sulle vie della Magna Grecia camminano e navigano i poeti del Mediterraneo. I poeti che racchiudono le lingue nelle emozioni, la percezione della parola nella intuizione, il senso del viaggio nella memoria che diventa viaggiante. Sono i poeti di una eredità greca, romana, adriatica e in un Occidente che penetro l’Oriente e viceversa. Sono i poeti della cesellatura del distico.
Quasimodo ha radici arabe. Pierro è arabo nel suo dialetto ma anche nella sua canzone per “Metaponto”. Sinisgalli batte le monete rosse sui gradini delle chiese e sembrano tocchi urlati dalle moschee. Gatto si riconosce nella sua Salerno che riporta gli echi del padre che è radice. Alvaro cerca un viaggio di mezzo tra il provenzale e il grecanico. Carrieri è un tuffo in una grecità tarantina che ha il suono delle alchile dei sufu.
Quanta cultura sufica c’è in Raffaele Carrieri? È una domanda alla quale bisogna rispondere. La poesia islamica, poesia medievale a cominciare da Rumi sino a tutta la tradizione dei dervisci danzanti, è dentro il cadenzare di Raffaele Carrieri.
Scotellaro ritrova nel mondo contadino una antropologia delle stagioni. Francesco Grisi calca il sentiero mesopotamico. C’è un Mediterraneo dentro i dettagli della poesia moderna di ciò che è stata Magna Grecia. Uno dei poeti che raccontato questo intreccio in termini sublimari è Stefano D’Arrigo. Accanto a Stefano si legano Lucio Piccolo, Gesualdo Bufalino, Bartolo Cattafi. Lorenzo Calogero incide il pianto della contemplazione. Franco Costabile con la sua “rosa nel bicchiere” canta lo spaziare del tempo tra la sua Calabria e i mari del Sud in un Oriente che custodisce orizzonti.
Credo che ci sia un legame significativo tra Raffaele Carrieri, poeta della Taranto greco – musulmana (la metafora è nella letteratura del binomio tra l’Oriente greco e il sufismo dei dervisci), Albino Pierro (soprattutto quello della poesia in lingua italiana: la sua rabatana è un rimando, con Sinisgalli, a un mondo prettamente arabo), Francesco Grisi (la cui poesia ritrova nella cultura biblica i luoghi del deserto e dei viaggiatori del deserto) e Gesualdo Bufalino (i cui echi sono intrecci di mediterranei icludenti tra la Sicilia e l’Oriente), Alfonso Gatto che ha fatto della memoria una chiusa di nostalgie in una ricordanza che è estasi.
È su queste dimensioni che hanno dell’onirico, è su questi percorsi che la Magna Grecia viene ad essere assorbita nella parola e nell’anima che sono nel mito della mediterraneità. Perché la mediterraneità. Questi poeti sono linguaggi di terra e di acqua. Sono poeti che non hanno mai spsso di confrontarsi con le civiltà perdute e con quelle culture che superano notevolmente l’antipoetico Dante per soffermare l’attenzione su un maestro sufi qual è khayyam. Ma con questo maestro hanno dovuto fare i conti sia Pascoli, senza il cui incontro sarebbe rimasto il piagnucolante poeta delle lamentele, come ho dimostrato in un recentissimo libro, Cardarelli , il poeta delle malinconie vitali, Ungaretti che lega la terra promessa al mondo islamico.
Siamo, dunque, a quella poesia che è Magna Grecia ma riesce a respirare l’onirico e il superamento della storia attraverso l’estetica e la perforazione degli sguardi. Perforare uno sguardo. Un’espressione terribile. Ma la poesia è terribile. Non è il riposo. Non è la dolcezza o il pianto carducciano o la classificazione commediante di un Dante la cui vera poesia si conta a goccie. La poesia è la ferita che penetra lo sguardo e tocca l’anima. Carrieri, Pierro, Grisi, Bufalino, Gatto sono nella modernità del contemporaneo perché hanno rischiato la parola dentro il mosaico del linguaggio. È certo che sono soltanto alcuni dei poeti da me studiati dentro lo scenario dell’oltre il suicidio della classicità scolasticizzata. Tracce. Ma di tracce e dettagli è fatta la poesia. Perché di dettagli e tracce è fatta l’esistenza. L’esistenza dei poeti. Di quelli che mai hanno ceduto al giudizio un loro vero, convinti che il verso non va spiegato e tanto meno commentato.
Il commento e il giudizio lo si affida a chi non fa poesia e di poesia comprende ben poco. Perché? Perché la poesia è delirio. Soltanto i folli scrivono poesia. Ma sono i folli, quelli veri, che guidano la bellezza delle civiltà. Una follia che si trova nell’estetica della parola che è musica nel suono danzante dei dervisci, delle danzatrici arabe, del sale degli Oriente nel volto della donna di Magdala che non chiede perdono e neppure di capire. Ma di restare impressa nella nostra vita come un Cantico tra i Cantici.
Si può andare oltre? Certamente sì. Ma sono stanco di Dante, Manzoni, Carducci… Recuperiamo la rosa nel bicchiere e le rose di Danzica che leggiamo nel mio caro e fraterno Alberto Bevilacqua. Per capire di più questo nostro perduto Occidente nella bellezza delle stelle danzanti di D’Annunzio dobbiamo essere coraggiosi. Il poeta è l’unico guerriero che resta in questo tempo di debolezze. Sulla riva della Magna Grecia i poti hanno cercato le rotte del Mediterraneo.

di Pierfranco Bruni
Data:  13/9/2013   |    © RIPRODUZIONE RISERVATA            STAMPA QUESTO ARTICOLO            INVIA QUESTO ARTICOLO


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