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Ma ne Il Martirio di sant'Orsola di Caravaggio cosa è successo esattamente?

pia di-marco-e-lut ROMA - Esserci e non essere: Il martirio di sant'Orsola del Caravaggio. Dedicato a Renata Gaddini. Il Martirio di sant'Orsola è un dipinto ad olio su tela (140,5 × 170,5 cm) eseguito nel 1610 da Caravaggio e conservato presso la galleria di Palazzo Zevallos a Napoli. I tre personaggi intorno a Orsola determinano uno scenario ove il dramma non è ancora compiuto. Il personaggio al centro protende la mano come per allontanare la santa dal suo carnefice, il personaggio all’estrema destra si avvicina convinto di poterle essere d’aiuto e, al suo fianco, l’alter ego di Caravaggio guarda stupito in direzione di Attila.
I due protagonisti, Orsola e Attila, invece, hanno una diversa nozione del tempo. Per loro tutto è già successo: la vittima non ne sa il perché mentre guarda stupefatta la ferita nel proprio petto; il carnefice - il volto deformato dall’orrore - neppure. Ma che cosa è successo, esattamente? Secondo la fonte letteraria (Jacopo da Varagine, Legenda aurea) Orsola viene ferita a morte da una freccia di Attila. Ora nel quadro di Caravaggio, lo spazio esiguo della pittura - uno scenario privo di qualsiasi riferimento narrativo - esclude che il re degli Unni abbia avuto realmente modo di agire, di scoccare la freccia contro la santa. A dire il vero, la ferita che egli ha inferto alla sua vittima sembra non collocabile in uno spazio e in un tempo precisi, non imputabile, cioè, ad una azione precisa. Un dettaglio avvalora questa lettura. La freccia nel petto della fanciulla è appena una velatura di ocra, una pennellata leggera (non percepibile a un primo sguardo) che lascia trasparire quel che c’è dietro: le pieghe della stoffa, il dorso perlaceo della mano della santa. In un quadro dove il colore è steso in modo corposo (pensiamo al rosso del mantello di Orsola, al nero divorante del fondo); dove ogni cosa è definita in modo lucido, preciso, questa freccia priva di materia colorata da cui zampilla sangue intriga.
Una volta individuato il dramma di Attila e di Orsola come qualcosa di già accaduto - eppure sempre presente, come ci suggeriscono gli astanti -; dopo avere compreso che l’offesa del carnefice è qualcosa di ineffabile, torniamo a osservare i protagonisti. E’ stato detto che Orsola sta per svenire. A me sembra che Caravaggio l’abbia colta in un atteggiamento non troppo diverso da quello che egli stesso conferì al Narciso (1597-1599, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica). Il capo chino, lo sguardo fisso sulla ferita, la fronte leggermente corrugata, la giovane sprofonda, si perde in se stessa al punto che non sembra rendersi conto neppure della presenza del suo aggressore. Si direbbe, insomma, che a ferirla mortalmente non sia la freccia (una causa esterna), ma qualcosa che provenga da lei. Allo stesso modo Narciso si perde nella propria immagine riflessa sullo specchio d’acqua: si isola, muore, ma ciò avviene non tanto perché ama se stesso, quanto perché non ama e non intende quello che lo circonda. In questo senso, Orsola come Narciso esprimono quella particolare condizione umana della soggettività estrema, incapace di comunicare, e che sente la realtà come una ferita al proprio Sé narcisistico, quasi che la realtà, appunto, per il solo fatto di essere tale, sia un’offesa personale.
Vorrei soffermarmi ora su Attila. A differenza della santa, Attila rivolge lo sguardo all’esterno, figge gli occhi stravolti nella ferita di Orsola, capisce in un istante chi egli sia. Orrore, senso dell’ineluttabile, consapevolezza di non potere più riparare il male inflitto: tutto si legge sul suo volto. Attraverso lo sguardo egli perviene a una riflessione mai prima raggiunta, e la fronte gli s’increspa di vistose rughe. Proprio questa mimica ci ricorda un altro personaggio di Caravaggio, il san Tommaso nell’Incredulità di san Tommaso di Potsdam (1600-1601). Solo che lì il sensoriale pone le premesse per un’esperienza di sé e dell’altro estremamente positiva. Esplorando il costato ferito di Cristo il santo non accompagna il senso del tatto con quello della vista: distoglie, anzi, lo sguardo, corruga la fronte, segue il filo di un nascente pensiero; lentamente matura - secondo lo spirito della storia - la fede/fiducia nell’Altro.
Tornando ad Attila, Caravaggio prova per questo eroe negativo un’immensa pietà. Gli conferisce il lume della coscienza - il dolore più grande - ; attraverso la postura in diagonale, protesa verso lo spettatore gli offre persino la possibilità di proseguire in una dimensione nuova, fuori dalla scena della tragedia.
Non sappiamo se l’artista in quest'ultima meditazione abbia voluto descrivere la sua condizione di spirito inquieto, solitario, e di assassino condannato a morte. E’ stata notata l’affinità tra la sua figura e quella di Orsola: andrebbe notato anche il parallelo che egli pone (attraverso lo sguardo) fra sé e Attila. In questo scenario senza riferimenti reali, senza aneddoti - oscuro luogo dell’interiorità - egli accosta, probabilmente, momenti diversi della sua propria sofferenza: l’esasperata soggettività che muore perché si isola, e, all’opposto, la disponibilità a entrare in relazione. Anche se entrare in relazione col mondo significa prendere coscienza del proprio agire nel mondo, con dolore, spesso, e senza poter cambiare quel che è stato.

di Pia Di Marco
Data:  31/8/2013   |    © RIPRODUZIONE RISERVATA            STAMPA QUESTO ARTICOLO            INVIA QUESTO ARTICOLO


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